Acqua forte e Stucco forte: la Tekne in Piranesi

Francesco Amendolagine
Francesco Amendolagine
Già docente di Storia dell'Architettura e Restauro dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia e dell'Università di Udine. Direttore dell'Associazione Scientifica Palazzo Cappello. Centro Internazionale per la Ricerca e il Restauro degli Apparati decorativi barocchi e neoclassici.
Stefano Noale
Stefano Noale
Architetto. Membro della Commissione Scientifica e Responsabile del settore pubblicazioni, biblioteca e patrimonio librario dell'Associazione Scientifica Palazzo Cappello. Centro Internazionale per la Ricerca e il Restauro degli Apparati decorativi barocchi e neoclassici.

Non solo cosa sapeva, ma cosa sapeva fare .
Una problematica fondamentale per andare oltre nella comprensione dell’opera piranesiana, in tutto il suo complesso, è poter rispondere alla domanda, cosa sapeva effettivamente fare.

Oltre la sua cultura testimoniata dalle conoscenze dovute alle frequentazioni di particolare livello tecnico-scientifico del suo côté famigliare e oltre il buon livello nozionistico impartitogli dal fratello Angelo, frate domenicano, il giovanissimo ventenne Giovanni Battista Piranesi (1720-1778) cosa sapeva fare, allorquando partì da Venezia per raggiungere Marco Foscarini (1696-1763) allora, per pochi mesi ancora, Ambasciatore veneto a Roma, futuro Doge dal 1762 al 1763 (fig. 1) e politicamente riconosciuto, in quegli anni, come figura istituzionale benevola verso la Massoneria? . Basti ricordare, tra le molte tangenze, come al seguito di Marco Foscarini vi fosse Antonio Corradini (1688-1752), lo scultore che si troverà al fianco del Piranesi nei suoi viaggi a Napoli, soprattutto in occasione della commessa dello scultore atestino da parte del principe di Sangro per celebrare la sua affiliazione alla Massoneria napoletana.

Ritratto del Doge Foscarini
Fig. 1 - Jacopo Guarana, Ritratto del Doge Marco Foscarini, 1763.
© Venezia, Palazzo Ducale.

È storicamente documentato che, successivamente, l’atteggiamento del futuro Doge andò cambiando di riflesso ad una profonda trasformazione interna alle varie anime della Massoneria italiana ed europea, avvenuta fra gli anni Sessanta - Settanta del Settecento, e della sua più incisiva azione politica e sociale sul territorio veneto.

Questa vincente effervescenza massonica degli anni sessanta del XVII secolo, che si andava strutturando capillarmente con le Logge fiorite nelle più importati città d’Italia, trasformò l’atteggiamento della maggior parte degli apparati politici di Palazzo Ducale e del suo territorio, inizialmente propensi al controllo a distanza della mondanità culturale, così ben espressa, nella Commedia di Carlo Goldoni (1707-1793) le Donne Curiose del 1753, scritta due anni dopo la Bolla di Benedetto XIV contro la Massoneria del 1751. L’Opera teatrale è tutta tesa a dimostrare che negli incontri massonici vi fosse, non solo alcuna intenzione destabilizzante, ma che la Politica, per costituzione, fosse bandita, intenzione effettivamente dichiarata negli iniziali protocolli settecenteschi e sostenuti, in contrapposizione, con altre correnti interne da un filosofo, fine ideologo della Massoneria inglese, come Pierre Bayle.

Vi fu uno scontro storico sulla norma che l’affiliato deve corrispondere alle norme e alle leggi del proprio Stato. La figura del buon massone come buon cittadino fu formulata da Pierre Bayle nella sua polemica contro Pierre Jurieu (1637-1713), come lui ugonotto francese e come lui esule in Inghilterra ma che non accettava la regola della tolleranza religiosa da applicarsi ad ambo le parti.

Ovviamente, come derivata dalla permissività durata mezzo secolo delle Autorità veneziane, anche quando si ritenne d’intervenire e le Logge furono chiuse, nel 1785, la persecuzione si risolse in un nulla e gli Inquisitori furono benevolmente propensi a credere a una Massoneria politicamente non schierata e tanto meno eversiva, come Carlo Goldoni, massone e bon vivant aveva descritto nella Commedia già citata.

Come ha evidenziato la ricerca in atto, quasi tutti i partecipanti alla prima massoneria e alle prime testimonianze di una società dei Lumi nel Veneto, furono colti aristocratici che usufruirono di questa nuova socialità, di questo più libero stare insieme urbano e della relativa circolazione laica delle idee.

Molti, successivamente, di fronte alla diversa presa di posizione politica più restrittiva da parte del Governo della Repubblica, si arroccarono su posizioni più difensive fino a giungere ad allinearsi con la Politica curiale romana che porterà alla chiusura della nascente struttura per Logge veneziane.

Per il futuro Doge l’architetto lagunare incise un Ex Libris, con l’οὐροβόρος e compasso, chiare ed evidenti simbologie muratoriane difficilmente giustificabili fuori dal contesto massonico.

Giambattista Piranesi era giunto nell’Urbe, chiamato con un preciso incarico di disegnatore, qualche mese prima che arrivasse a palazzo Venezia il nuovo ambasciatore Francesco Venier quondam Pietro (1700-1791) che viaggiava con il segretario, certificato affiliato massonico, Pietro Vignola quondam Lorenzo con cui continuò a svolgere il suo ruolo. Questo dimostra certezza che le sue capacità sul versante del disegno, sia tecnico sia d’ornato, erano già mature ed erano state notate ed apprezzate dall’aristocrazia veneziana.

Nudo di profilo
Fig. 2 - G. B. Piranesi, Profilo destro di nudo seduto, Taccuino «A», c. 4.
© Modena, Biblioteca Estense

Che la sua professionalità nell’ambito del disegno fosse già forgiata, oltre lo specifico settore del disegno tecnico richiesto dall’incarico, durante gli studi ed esperienze veneziani, emerge dal Taccuino A della Biblioteca Estense di Modena, i cui disegni sono datati 1740-1750, cioè nel primo decennio del suo soggiorno romano. Questi rivelano la sua raffinatezza grafica non solo nel disegno geometrico e prospettico ma anche nell’ornato e, ancor più difficile da comprendere rispetto al suo apprendistato, nel nudo. Il Profilo destro di nudo seduto (fig. 2) non rimanda a una formazione autodidatta ma sicuramente ad una forma di serio alunnato che, se avvenne, fu praticato a Venezia e si può ipotizzare che avvenne nell’atelier dei fratelli Valeriani e più specificatamente nella figura di Giuseppe specializzato come figurinista, come attesta la testimonianza di Jacques-Guillaume Legrand (1753-1807) nel 1799.

È difficile comunque oggi con le nuove conoscenze, ipotizzare che il giovane ma particolarmente preparato e attrezzato sul “saper fare” e dal carattere già formato, Giovan Battista Piranesi sia giunto a Roma per un casuale incarico di disegnatore d’Ambasciata e il suo successo come incisore e l’insuccesso come architetto siano casuali. Se il giovane "apprendista stregone" era necessario in qualità di tiralinee in Ambasciata e quella doveva essere per il nobile Ambasciatore la sua carriera non era necessario farlo pervenire a Roma negli ultimi mesi dell’incarico Foscarini, evento che invece sembra studiato e voluto. Non a caso Piranesi si trova dopo tre anni a fianco di un impresario edile “muratore” che ha rapporti sia col segretario d’Ambasciata, Pietro Vignola sia col suo congiunto affiliato alla Loggia milanese, e si ritrova ad andare in cerca, a Napoli, di stampe di Giovanni Benedetto Castiglione detto "il Grechetto" (1609-1664) con Antonio Corradini, scultore atestino di fama internazionale in rapporti stretti con Marco Foscarini e che verrà, dopo pochi anni, chiamato a segnare con la sua opera il monumento che il principe di Sangro eleverà coram populo a memento del suo impegno non solo “mondano” nella Massoneria napoletana e internazionale.

Si tratta pertanto di andare oltre l’esauriente saggio di Lionello Puppi (1931-2018), Appunti sulla educazione veneziana di Giambattista Piranesi in cui si è tracciata la rete di incontri e interessi del giovane a Venezia e i relativi proseguimenti a Roma ma in cui non venne preso in considerazione il conseguente apprendimento tecnico sotteso alle giovanili e appurate frequentazioni veneziane e il loro proseguimento nell’Urbe.

Queste furono evidentemente senza soluzione di continuità anzi instaurando un rapporto di andata e ritorno, durante il primo decennio del soggiorno romano e, successivamente, di continuità, di frequentazione e di aggiornamenti culturali ed artistici.

Basti citare il rapporto continuo emerso con la famiglia di Andrea Zucchi (1679-1740), incisori veneziani di fama internazionale a cui l'architetto incisore deve il suo apprendistato lagunare, che traccia un triangolo documentato Venezia-Roma-Londra , iniziato nella Serenissima, prima degli anni Quaranta e ancora vivo negli anni Sessanta del XVIII secolo, allor quando il giovane Antonio Zucchi (1726-1795) giunse a Roma, a metà degli anni Sessanta, e fu da Piranesi messo in contatto con il giovane architetto inglese Robert Adam (1728-1792) che non a caso Antonio seguirà nel Regno Unito.

Non si tratta pertanto di stabilire la priorità o la supremazia delle influenze veneziane o romane nel contesto di tutta la complessa avventura piranesiana, bensì di evidenziare l’emergere e il consolidarsi delle conoscenze tecniche che richiedono tempo e docenze di non brevi periodi, a seconda delle varie esperienze affrontate dall’architetto veneziano. Solo facendo emergere l’aspetto dei tempi di apprendimento della τέχνη si può comprendere la complessità del rapporto che Piranesi instaura con l’architettura e la decorazione, fondamentale per illuminare la sua tendenza a perseguire una teoria nascosta evidenziando la prassi, modus cogitandi proprio del pensiero massonico o meglio del suo versante “muratoriano” e per riflesso comprendere la complessa fase progettuale della sua opera architettonica: la chiesa del Gran Priorato dell’Ordine di Malta sull’Aventino.

Questo rapporto può essere assunto come la chiave interpretativa di tutta l’opera di Giovanni Battista. Non è tanto significativo, a questo punto, ipotizzare un’improbabile iscrizione ad una Loggia massonica, quello che qui interessa è mettere in evidenza quanto l’architetto abbia elaborato le proprie esperienze esattamente come nell’escamotage euristico dell’Encyclopédie dove, appunto, la tecnica è esaltata e sottesa ad una rivoluzionaria visione illuminista che è invece tutta da ricercare e scoprire.

È questa chiave interpretativa che mette a nudo il vero significato di uno dei momenti più alti dell’inventio e della tecnica applicata piranesiana, il ricercato e voluto progetto dell’altare della chiesa di Santa Maria del Gran Priorato a Roma che qui viene anticipato rispetto alla lettura successiva del complesso dell’Aventino, proprio per il suo valore esemplificativo.

Nell’altare, l’idea viene mostrata, sia nella sua varietas inventiva sia nella sua rigorosa geometria, nella sua nudità senza alcun segno che possa sovrapporsi alla scabra sommatoria di pure figure geometriche generanti l’insieme volumetrico dell’altare.

È la nudità della macchina frutto di un furor calcolandi ben espresso nel saggio di Manfredo Tafuri (1935-1994) che, pur non entrando nel merito della τέχνη, comprende le radici profonde della spinta progettuale piranesiana che non si mostra ma che si può scoprire nella sua totalità attraversando, andando oltre la decorazione, fino ad aggirarla.

Quest’ultima si mostra in tutta la sua potenza e tutta la sua tecnica operandi utilizzando la “retorica” della traditio barocca piena di saperi di tecniche e di calcolo, difficili da apprendere e che pretendono conoscenze specifiche diverse se attuate con materiali lapidei o con lo stucco forte come nel caso del Gran Priorato e che Piranesi dimostra di avere evidentemente appreso e praticato.

La costruzione di questi imponenti macchine ebbe, ab initio, come patria proprio la Roma barocca: un esempio impareggiabile e modello attraversato da tutti gli artisti della fine del XVII secolo, lo si ritrova nell’altare di Santa Maria Transpontina (1674) dell’architetto Carlo Fontana (1638-1714) e dello stuccatore Leonardo Retti (?-1714). Queste macchine Piranesi le conoscerà nel loro successivo fiorire a Venezia e ne vedrà alcune appena montate come quella della chiesa di Santa Maria dell’Assunta o dei Gesuiti e quella della chiesa di Santa Maria di Nazareth o degli Scalzi, tutte e due su progetto di Jacopo Antonio Pozzo (1645-1721), detto Giuseppe. Questo monumento è ben conosciuto in quanto al suo interno lavorano sia Giambattista Tiepolo (1696-1770) ma, soprattutto, i due fratelli Valeriani, Domenico (documentato dal 1735 al 1771) e il già citato Giuseppe (1708 ca.-1762), pittori prospettici, suoi docenti pratici e teorici di Scenografia.

Altare Santa Maria del Priorato
Fig. 3 - Roma, chiesa di Santa Maria del Priorato: altare dell’Ecclesia.

La “macchina dell’altare” (fig. 3), fin dall’ingresso, si mostra immediatamente in tutta la sua potenza liturgica e nel suo trionfo decorativo. È il vero fine del percorso nell’Ecclesia, o meglio dell’Ecclesia nel Tempio. Ma la sua struttura, l’essenziale, il suo darsi si può apprendere, completamente e senza veli solo aggirandola, girandogli intorno.

È sempre, come si vedrà successivamente, una metafora del viaggio, del Tour, così al centro delle elaborazioni massoniche. Il percorso di aggiramento dell’altare sta per il viaggio iniziatico che è sotteso al Gran Tour, che è sotteso all’attraversamento delle Carceri, che è sotteso ai raggi di luce che esaltano il retro dell’altare e che ne velano il fronte dello stesso.

L’ambiente da cui proveniva Piranesi è indubbiamente legato a protagonisti della cultura illuminista e muratoriana veneziana e veneta. Quest’ultima, nella prima metà del secolo, aveva trovato in Toscana una sua logica forma organizzativa nelle Logge di ascendenza inglese, poiché favorite da una forte presenza a Firenze di residenti d’Oltremanica, prevalentemente legati al mondo diplomatico col suo strascico di addetti militari, spie e mondanità la cui presenza era giustificata da quello che fu un affaire internazionale, cioè la successione dell’ultimo dei Medici, Gian Gastone (1671-1737) che, per alcuni anni, trasformò Firenze in un crocevia delle diplomazie internazionali, eccezionalità che permise una fruttuosa andata e ritorno tra Venezia e Firenze.

Di questo intrecciarsi di percorsi ne è testimone la prima Loggia fiorentina, tra le prime di tutto il Continente, risalente al 1731, dove appare sulla scena anche l’intellettuale Tommaso Crudeli (1702-1745) che è considerato, in quanto incarcerato e torturato dal Sant’Uffizio di Firenze, il primo martire della Massoneria italiana, evento che stabilisce subito una sostanziale differenza tra l’opportunistica ossequiosità ai dettami di papa Clemente XII, il fiorentino Lorenzo Corsini (1652-1740) della Città Granducale e la dichiarata autonomia della Serenissima.

Non a caso Tommaso Crudeli aveva instaurato un rapporto diretto con la società civile veneziana in quanto, subito dopo la laurea pisana, aveva accettato un lungo soggiorno, dal 1726 al 1728, in Laguna come istruttore della famiglia Contarini, del ramo detto “Piazzola”, dall’omonima proprietà sul Brenta.

Probabilmente fu Marco Contarini a chiamarlo (1708-1746), quondam Marco, quondam Pietro. Nel 1727 in occasione delle Nozze di Marco Contarini con Paolina Contarini, quondam Alvise, procuratore, quondam Piero, il Crudeli scrisse, dedicandolo ai due sposi, un Epitalamio dall’ Incipit "Lascia omai Venere bella /la tua stella".

Marco Contarini ebbe quattro figli tra cui Pier Maria, detto Alvise II, Cavaliere e Procuratore di S. Marco che, nel 1785, verrà affiliato nella Loggia di Rio Marin .

Marco Contarini, fra i vari incarichi diplomatici, fu nominato nel 1743 dalla Repubblica di Venezia Ambasciatore alla Corte di Vienna, ed ebbe come segretario Cesare, uno dei due congiunti Vignola, documentati affiliati massoni e già citati.

Questi possono essere considerati un trait d’union che collega fra loro l’èquipe impegnata nella chiesa di S. Rocco a Venezia, cioè Giovanni Scalfarotto e Antonio Temanza con il romano Nicola Giobbe e, attraverso lui, Antonio Corradini e il Principe di Sangro.

Ma ancora più significativo: fu l’aristocratico padovano Antonio Conti (1677-1749) a mettere in rapporto, con un viaggio a Napoli, il filosofo teorico della Massoneria francese Pierre Bayle (1677-1706) con il Principe e con l’economista filosofo napoletano Antonio Genovesi (1713-1769), tutte personalità che come affiliati massoni ebbero un ruolo non indifferente nella storia di Giovanni Battista Piranesi. I rapporti tra gli ambiti illuministi veneziani e fiorentini furono continui e documentati anche dopo il ritorno del Crudeli a Firenze.

Una sua lettera inviata a Francesco Algarotti (1712-1764), fu intercettata dalla Polizia e una non documentata tradizione letteraria vuole che quest’ultimo fosse iscritto alla Loggia fiorentina, fondata nel 1731.

Nella Patria Serenissima vi fu, invece, e questa può essere la ragione della venuta del Crudeli a Venezia, uno sviluppo del tutto particolare del rapporto non conflittuale tra la politica e l’avanzare delle idee illuministe che non richiese per molto tempo, come già detto, una capillare organizzazione ma che fu ben presente come movimento intellettuale e soprattutto sociale.

Per comprendere l’unicità dell’altare del Gran Priorato bisogna definire quanto abbia influito la capacità di calcolo sia matematico, sia geometrico. Da questa base culturale e pratica si può partire per stabilire l’originalità su cui si fonda la complessa soluzione formale della sua macchina-altare e il senso e il coraggio di proporre la nudità della fronte posteriore, unico esempio sia nel suo contesto ma anche come assolo storico impraticabile, tale che Manfredo Tafuri giunge a tracciare un ponte fra questo unicum e il pensiero negativo novecentesco, le nudità loosiane sino ai silenzi decorativi assoluti di un altro unicum: l’architettura wittgensteiniana.

L’architettura, la matematica e la geometria come visione del mondo e come prassi quotidiana nell’appropriazione della realtà, sono tematiche specifiche dell’Illuminismo in area veneta e una costante nell’entourage familiare e professionale del Piranesi.

Architettura e scienza sono i temi di continui dibattiti in laguna che, secondo il portato massonico, sono evidenti temi concreti che si decantano in un mondo di architetture costruite come la chiesa di Santa Maria Maddalena (1763-1790) dell'architetto Tommaso Temanza (1705-1789), di misurazioni balistiche come quelle di Andrea Musalo (1665-1721) o come la risoluzione dei calcoli di integrali da parte di Antonio Conti. A questo bisogna aggiungere anche il rimando ai calcoli cabalistici, alle ricerche alchemiche, alle teorie del Grande Architetto dell’Universo. Tematiche specificatamente legate alla Massoneria afferente alle teorie newtoniane e alla figura carismatica del grande fisico.

Si prenda per primo in considerazione il bagaglio cognitivo di Giovanni Antonio Scalfarotto (1697-1764), Tutto rivolto alla prassi professionale, ma allievo e intimo del matematico e fisico di livello europeo, il patrizio di Candia, rifugiato a Venezia, Andrea Musalo, che gli lascerà in dote, alla morte, i suoi strumenti di ricerca e studio ma anche i suoi limiti.

Nell’ambito dell’architettura sarà proprio il Musalo a lasciare arenare ogni aggiornamento al gruppo di architetti a lui afferenti in quanto ancor legato alle procedure geometriche della scuola Galileiana - Torriceliana, a cui rimase ancorato anche Piranesi.

Infatti, allo stato attuale della ricerca, relativamente ad Andrea Musalo non si è riscontrato alcun legame significativo personale con la cultura massonica se non l’aver rintracciato tra gli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori a cui viene dedicata l’opera Uso de’ Logaritmi nella Trigonometria Piana, e nelli Tiri dell'Artiglierie, e de’ Mortari, del 1702, Sebastian Foscarini Kav. Proc. quondam Alvise (1649-1711). Si tratta di un rappresentante del ramo dei Foscarini di San Stae, pertanto imparentato con Marco quondam Nicolò, futuro Doge.

Attraverso Matteo Lucchesi (1705-1776) e Tommaso Temanza , quest’ultimo, denominato nei documenti del cantiere di Santa Maddalena (1793-1790) prima come matematico e poi come architetto, emerge, parallelamente al Musalo, nell’ambito di Piranesi, la figura del marchese Giovanni Poleni (1683-1761), ingegnere e docente universitario, loro professore a Padova.

Era una figura che faceva parte della cultura quotidiana della vita di cantiere e sociale a Venezia. Ma è attraverso Francesco Algarotti e Scipione Maffei, rappresentanti di quell’onda illuministica legata allo sviluppo della Massoneria europea, nel modo veneto, che più ci si avvicina ad un sapere concreto che porta all’altare del Gran Priorato.

Infatti, sia il Maffei sia l’Algarotti condividono esperienze e saperi con una figura chiave della cultura veneta che si lega a Giovan Battista Piranesi e all’altare romano.

Gli studi contemporanei hanno, infatti, riletto e si sono ripiegati su un insigne rappresentante dell’Illuminismo veneto: il conte abate Antonio Schinella Conti. Patrizio veneto, giunto al sacerdozio nel 1708, lascia la congregazione dei padri dell’oratorio della Fava a Venezia e inizia a viaggiare.

Inventa una figura di matematico, geometra, fisico, politico, esteta, poeta e scrittore di teatro, versatilità che ben rappresenta quella tragica curiosità, quella ricerca del vero e dell’ ascosto che faranno di Antonio Conti uno dei rappresentanti più noti e rispettati della poliedrica cultura illuminista europea anche se poi scomparso dalle mappe storiche degli eroi di quella avventura in quanto “macchina celibe”: Si potrebbe affermare che fu presente in quegli anni su tutti i fronti ma carente nel teatro della editoria per cui gioca tuttora un ruolo più significativo Francesco Algarotti più prolifico e più attento alla divulgazione.

Pur con i limiti dell’analogia formale, si è riusciti a trovare due immagini che fanno intravvedere la scelta di risolvere la parte strutturale dell’altare partendo da una sommatoria meccanica formata da un trapezio e da una sfera, idealmente incorniciati da una figura geometrica piramidale.

E’ una sommatoria non riscontrabile facilmente in altri apparati decorativi né d’altare, né funebri e sapientemente giocati da Piranesi, elaborandone un incastro particolarmente voluto e ricercato.

Dai disegni che sono rimasti si può estrapolare e seguire tutto l’iter creativo.

Antonio Conti, Francesco Algarotti, Scipione Maffei e Giovanni Poleni (1683-1761), formano un quadrilatero, ognuno dei vertici aggancia un rapporto diretto con la figura umana e la cultura di Sir Isaac Newton (1642-1726), tale da ipotizzare che Piranesi abbia avuto la possibilità, soprattutto a Venezia, ma anche a Roma, di collegarsi direttamente a tutte le esperienze sottese al quadrilatero dei cultori del pensiero fisico ed esoterico newtoniano.

Ecco che appare sullo sfondo il Memoriale per la tomba di Newton, eretto nel 1731 dallo scultore fiammingo John Michael Rysbrack (1694-1770) in una cappella nell’Abbazia di Westminster, su disegno dell’architetto inglese William Kent (1685-1748), architetto massone e, non a caso, intimo di Pierre Bayle e, soprattutto il progettista della villa del poeta Alexander Pope (1688-1744), anch’egli massone e intimo amico di Antonio Conti.

La struttura geometrica della realtà è un filo rosso che lega la coppia Galileo-Newton in quanto, dal punto di vista della ricerca, il fisico inglese è l’epigono della visione del mondo fisico, sub specie geometrica, espressa dall’asse Galileo-Torricelli che viene assunta da Sir Christopher Wren (1632-1723), docente, dal 1660, della cattedra di matematica all’Università di Oxford ma anche insigne architetto e trasmessa al giovane Newton che occuperà, dal 1669, la cattedra della stessa disciplina all’Università di Cambridge.

Da sottolineare che nel trattato di Andrea Musalo, pubblicato nel 1702 a Venezia, nell’introduzione l’autore cita e rivendica di praticare la scienza matematica proprio nell’asse di continuità con Galileo e Torricelli. Non a caso uno dei punti più avanzati nell’avvicinamento al calcolo infinitesimale, raggiunto dall’allievo romano del Galilei, fu proprio nella sua ricerca balistica che è il tema del trattato del matematico veneziano Uso de’ Logaritmi nella Trigonometria Piana, e nelli Tiri dell'Artiglierie, e de’ Mortari.

Antonio Conti è probabilmente insieme al Poleni l’unico, in area veneta, non solo a conoscere ma a poter praticare ed entrare nel merito delle scoperte matematiche di Newton.

Sono probabilmente gli unici a saper risolvere, nel territorio della Dominante, un integrale col procedimento geometrico newtoniano e anche di comprendere l’impostazione geometrica della scuola inglese, contrapposta allo sviluppo analitico della scuola francese e della ricerca di Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) con cui comunque il Conti è in stretto rapporto ed è uno dei pochi che conosce il differente procedere dei due calcoli e li pratica entrambi.

Il Conti entra tra i primi italiani in contatto stretto con la Massoneria inglese e francese e, pertanto conosce perfettamente la particolare scansione della teoria massonica dello scienziato e i valori sottesi alla tomba di Newton e a tutto l’ambiente culturale che la circonda.

Il Memoriale newtoniano di Kent è inaugurato dal poeta Alexander Pope il cui rapporto con il Conti è talmente stretto che il patrizio padovano s’impegnerà a tradurre, con l’aiuto di Henry Saint-John, visconte di Bolingbroke (1678-1751), affiliato alla Massoneria inglese e grande amico del Pope, alcune opere del poeta britannico tra cui, nel 1724, The Rape of the Lock.

È pertanto del tutto giustificato questo rimando a Newton, pieno di valori illuministi e massoni secondo la sua impostazione e la sua corrente interna e per considerare l’altare di Piranesi come un’espressione geometrica derivante dal Memoriale di Westminster e di interpretare il volume dell’edificio religioso dei Cavalieri di Malta come un tempio della Luce che dà senso al biancore dello stucco di calce e alla luce come gioco sapiente, calcolabile secondo le scoperte newtoniane.

Questo porta a un’illuminazione privilegiata per disvelare il disegno geometrico puro e senza decori che, da una parte si distingue e dall’altra convive con l’invenzione artistica che si dà come immagine prima, come prima impressione, sotto l’aspetto di molteplicità di segni e una multiforme sequenza di simboli distribuiti sulla facciata barocca dell’altare, quella rivolta verso l’Ecclesia che in questo senso è interna al Tempio.

È il momento mondano dell’architettura templare, ciò che si può vedere, il coram populo, mentre la autentica conformazione del vero, è là, dove c’è il trionfo della luce, lo spazio dove si accede andando oltre.

In un certo senso Piranesi predispone una macchina e traccia un percorso dove viene a configurasi una forte similitudine fra il cavaliere e l’illuminato, l’affiliato massone. Nella forma evidente della facciata e del volume, Santa Maria del Gran Priorato è templare, ma quanto più lontano da una ricostruzione di un modello storico.

L’architetto abbandona non solo ogni ellenismo ma anche qualsiasi richiamo all’architettura romana od etrusca, immagina un valore templare che non ha bisogno degli antichi per accreditarsi come tale, è un’idea astratta di tempio, è un tempio ma è contemporaneamente fuori, oltre la Storia e sotto questo aspetto rappresenta il nuovo in assoluto (fig. 4).

 Facciata Santa Maria del Priorato
Fig. 4 - Roma, chiesa di Santa Maria del Priorato: il Tempio.
Interno Santa Maria del Priorato
Fig. 5 - Roma, chiesa di Santa Maria del Priorato: l’Ecclesia nel Tempio.
Disvelamento illuminato
Fig. 6 - Roma, chiesa di Santa Maria del Priorato: il disvelamento illuminato.
L’occhio orbato
Fig. 7 - Roma, chiesa di Santa Maria del Priorato: l’occhio orbato.

In esso è contenuta una Ecclesia.

Qui l’architetto compie un'altra rivoluzione illuminista.

Là dove per i neoelleni, i puristi della riscoperta archeologica pongono la cella, il momento più intimo del classico nel rapporto col suo dio, Piranesi inserisce lo spazio cristiano dell’Ecclesia, il luogo del rito comune, della partecipazione, dove i cavalieri mondanamente stanno nel secolo.

La Ecclesia viene risolta con linguaggio che usa i segni del precedente anzi dei precedenti, non vi è nulla di rivoluzionario: è una chiesa riconoscibile come tale, è tutta nella Storia e l’altare è posto alla fine di questo percorso dove tutto appare, dove tutto è riconoscibile proprio perché è nello stile corrente, i cui segni sono ancora leggibili da tutti (fig. 5).

Qui termina il percorso dell’Ecclesia mentre, il disvelamento, l’oltre sta nel retro, ed è solo per i cavalieri, per l’iniziato. Qui vi è l’epifania, qui il Tempio ritorna Tempio ma come Tempio di Luce che illumina l’ara disvelata (fig. 6). Questa lettura è stata possibile perché il foro circolare posto nella cupoletta al di sopra dell’altare e letto da Manfredo Tafuri e da Francesco dal Co come un occhio newtoniano da cui esce il raggio di luce sacrale, per cui una luce privilegiata sotto forma di raggio newtoniano avrebbe illuminato la fronte barocca dell’altare (fig. 7) capovolgendo la possibile lettura dove il raggio disvelante non la sta nella parte dell’Ecclesia ma nella parte dove il Tempio s’innonda di luce e illumina la struttura reale concreta di cui è composta la sacra ara. In effetti il restauro conservativo eseguito ha assicurato che dalla ricostruzione ottocentesca non vi è stata mai nessuna presenza di lanterne esterne alla copertura che permettessero il passaggio della luce dall’esterno all’interno, non solo, tutte le documentazioni grafiche precedenti non riportano alcun segno di lanterna sulla copertura. Pertanto si può dedurre che da quell’occhio l’architetto non aveva previsto una immissione di luce.

Non a caso si può qui riportare un’invenzione pittorica, Tomba allegorica di sir Isaac Newton, del 1727 (fig. 8).

Il quadro fu realizzato a tre mani, cioè dal pittore Giovanni Battista Pittoni (1687-1767) e, come responsabili dell’apparato scenografico architettonico, i già citati fratelli Valeriani in stretto rapporto con Piranesi.

L’opera, che riprogetta un cenotafio newtoniano, potrebbe essere un’immagine avulsa dal contesto reale della chiesa del Priorato e da un possibile rimando alla tomba di Newton.

Diventa invece una testimonianza preziosa e un altro filo rosso che può tracciare una congiunzione tra l’opera dipinta dal Pittoni e quella architettonica dell’altare di San Basilio. Nella tela in effetti vi è un occhio da cui s’irradia un raggio di luce ma è tutto interno al cenotafio e aiuta in un certo senso a disvelare la teoria della luce sottesa alle ricerche newtoniane. Più interessante nel nostro caso è un’altra tela, sempre firmata da Pittoni dove, in un’architettura molto simile alla precedente viene inserita l’esatta riproduzione della tomba di Newton come si trova nell’Abbazia di Westmister si tratta di Omaggio a Isaac Newton del 1732 (fig. 9). L’angolo prospettico scelto dall’artista mette in evidenza l’incastro della sfera all’interno della figura trapezoidale della base della piramide, è un incastro geometrico che trentatré anni più tardi Giovan Battista Piranesi sembra aver raccolto e ripreso.

Fig. 8 - Giambattista Pittoni, Domenico e Giuseppe Valeriani, <i>Tomba allegorica di sir Isaac Newton</i>
Fig. 8 - Giambattista Pittoni, Domenico e Giuseppe Valeriani, Tomba allegorica di sir Isaac Newton, 1727.
© Cambridge, Fitzwilliam Museum.
Omaggio a Newton
Fig. 9 - Giambattista Pittoni, Omaggio a Isaac Newton, 1732. Collezione privata.

Quest'ultimo, l'altare di Piranesi, non può essere scritto che in una lingua sacra, la lingua del Dio costruttore che è ancora, come negli assunti newtoniani, la lingua regina, la lingua che verifica la correttezza del calcolo matematico cioè la geometria.

E qui termina non solo l’exploit architettonico dell’architetto ma anche il tradizionale colloquio Architettura, Scienza, Calcolo che tanto aveva entusiasmato l’Illuminismo e il mondo massonico veneto e che faceva di Piranesi un architetto diverso, fuori dal purismo romano e dal palladianesimo lagunare.

Piranesi non sa calcolare un integrale, il mondo analitico, il calcolo sublime leibniziano gli sfugge, come sfuggì all’ultimo grande architetto che partecipò alla storia del Calcolo, Christopher Wren, affiliato della Royal Society, insieme al più giovane e anch’esso affiliato Isaac Newton.

Si può affermare che il retro dell’altare di Piranesi segna la fine del Rinascimento inteso nel suo rapporto tra architettura e calcolo, nel senso più ampio tra architettura e scienza. Dal primo calcolo di Leon Battista Alberti (1404-1472) che riesce a mettere in rapporto l’arcata del ponte con la portata del fiume, facendo entrare l’architetto all’interno delle conoscenze accademico-scientifiche, impossibile per i maestri e per i proti il cui sapere rimane tutto interno al cantiere, diventa non a caso Christopher Wren, l’ultimo grande architetto che partecipa e risolve un problema matematico, a definire con precisione la lunghezza dell’arco della cicloide che risulta così a essere uguale al quadruplo del suo asse e a scoprire, nel 1669, che l’iperbole di rotazione a una falda può essere generato dalla rotazione di una retta intorno a un’altra ad essa sghemba.

D’altronde, anche se non è questa la sede per approfondire il rapporto tra l’Ordine di Malta e la Massoneria è sicuramente documentabile che la tendenza alla cripticità di quest’ultima si rispecchia nell’esclusività e inaccessibilità dell’Ordine stesso. Questi ha mantenuto nei secoli la regola che rende necessario far parte del corpus nobiliare come conditio sine qua non per entrare a far parte del governo dello stesso, il che ha portato a una percezione dell’Ordine come “chiusa Cittadella”, e i Cavalieri come affiliati a un Ordine depositario di saperi antichi, il che può aver facilmente, come idea dominante, instaurato un rapporto di rispecchiamento tra i due Enti.

Ma vi è ancor più chiaramente un interesse specifico del pensiero massonico verso le organizzazioni storiche degli Ordini sia monastici sia cavallereschi dinastici o religiosi come l’Ordine di Malta che tra l’altro avevano in Inghilterra un’aurea tutta particolare sia sul versante laico che non.

Proprio a seguito delle traversie politiche d’Oltre Manica della fine del XVII e inizio del XVIII secolo per l’aristocrazia inglese, rimasta cattolica, l’Ordine di Malta divenne uno spazio privilegiato in quanto a suo esclusivo titolo.

Tant’è che vi sono ancor oggi lontani echi di questa isola di privilegio riscontrabile nel fatto che dall’aristocrazia inglese provengono i due penultimi Gran Maestri dell’Ordine.

“Davanti alle prime ostilità e alle prime condanne, anni 1740, che sono anche condanne della nuova cultura, la Massoneria scopre l'importanza del dissenso politico, della tolleranza, della libertà di ricerca, di esaltazione del merito e della conoscenza individuale, infine della stessa felicità. Persino sul piano organizzativo la Massoneria si mostra, come sul piano culturale, assai aperta ad assimilare altri modelli: da quelli delle arti e professioni, con i loro gradi interni, le loro gerarchie, le loro pratiche di cooptazione fino a quelli degli Ordini cavallereschi e religiosi, dal modello gesuitico a quelli della sociabilità accademica” .

Vi sono, comunque, testimonianze incrociate, alcune molto vicine alla committenza della chiesa del Gran Priorato, che disvelano il rapporto stretto fra Cavalierato e cultura di Loggia.

La nobile casata cremonese dei Sommi Picenardi fu una delle famiglie di peso dell’Ordine tra il XVIII e XIX secolo ma è documentata contemporaneamente la loro partecipazione alla Massoneria. Il rapporto di amicizia con Giuseppe Jappelli (1783-1852), esule da Padova nel 1813 all’arrivo delle truppe austriache, massone ma soprattutto figlio di un segretario dell’Ordine di Malta, permise alla famiglia cremonese di offrirgli ospitalità per due anni. Questa fu l’occasione per il giovane architetto di intervenire nel famoso giardino di famiglia della villa di Olgiate e progettare quello che è considerato tutt’oggi un esempio di architettura naturale d’influsso massonico, il che non fa che confermare gli incroci culturali e politici tra Massoneria e Ordine gerosolimitano tra Settecento e Ottocento.

Per quanto riguarda Piranesi non è possibile quindi stabilire se egli fu effettivamente massone iscritto, perché se in ogni caso lo fu, lo fu in modo veneto cioè al di fuori delle Logge e fuori dai rigidi protocolli difensivi che furono praticati dall’organizzazione segreta successivamente agli anni piranesiani, verso la fine del XVIII secolo.

Molto più interessante è ricostruire la rete dei rapporti sia culturali, sia tecnici con personalità che risultano, in qualche modo, portatrici delle idee illuministe e, contemporaneamente, legate ad attività muratoriana.

Tra l’altro, come già detto, in area veneta, quasi sempre fuori dall’ombra di una Loggia.

Non è certa, infatti, nemmeno la costituzione a Verona di quella che sarebbe nata, sotto l’egida del marchese Scipione Maffei, nel terzo e quarto decennio del XVIII secolo, poco prima della sua morte.

Una seconda immagine, oltre quella della tomba di Newton di Londra riporta alla mente l’altare del Priorato. È una possibile suggestione che può avere colpito e segnato la memoria del giovane veneziano Piranesi.

Disegno Gaspari S. Marziale
Fig. 10 - Antonio Gaspari, Disegno per l’altare maggiore della chiesa di San Marziale, Venezia.
© Venezia, Museo Correr, Biblioteca.
Antonio Gaspari Tommaso Rues
Fig. 11 - Antonio Gaspari e Tommaso Rues, Altare maggiore della chiesa di San Marziale, Venezia, anni Novanta del XVIII sec.

È l’Altare Maggiore della chiesa di San Marziale. Si tratta di una grande macchina barocca ideata da Antonio Gaspari (ante 1660 - post 1730, ante 1749) e Tommaso Rues (1633 ca. - 1703) negli anni Novanta del XVII secolo (figure 10 e 11). In questa grande macchina scultorea molto distante dal barocco contenuto della tomba londinese ma con qualche similitudine con le istanze ancora barocche della macchina piranesiana dell’Aventino dalla parte del decoro trionfante. Vi sono comunque due riferimenti precisi: il primo, che vale sia per San Marziale sia per il Priorato è l’iscrizione in un'allusiva quanto evidente forma piramidale. Tale forma è presente in materia, invece, nella tomba di Newton.

Il secondo riferimento è l’emergenza nell’insieme della sfera, elemento geometrico evidente in tutti e tre monumenti. Non è senza significato il fatto che l’altare di San Marziale sia eseguito su disegno del Gaspari in quanto quest’ultimo fa parte di quegli architetti veneziani non sistemati sulla linea vincente post-longheniana di un neoclassicismo declinato in Laguna con stilemi ripresi dalla lezione palladiana. Non è un caso che Matteo Lucchesi si vantava di aver raffinato alcuni rapporti praticati da Palladio, in un certo senso superandolo, nella chiesa di San Giovanni Nuovo a Venezia del 1762 e pertanto vi è sicuramente un feeling tra la poetica barocca del Gaspari e l’atteggiamento anti-palladiano del giovane Piranesi.

Tutto l’entourage che emerge intorno alla figura del giovane architetto permette di ipotizzare che abbia potuto godere di uno dei privilegi più ricercati nell’ambito sia dell’Illuminismo sia della Massoneria.

Si tratta cioè uno dei segni più sicuri per favorire il “viaggio iniziatico” praticato all’interno dell’organizzazione ma documentato a favore anche di simpatizzanti e frequentatori della mondanità massonica: le famose “patenti” di accompagnamento con l’obiettivo di facilitare gli incontri tra confratelli.

Giovanni Battista Piranesi, al suo debutto editoriale nell’arte incisoria nel 1743, ha solo ventitré anni, é a Roma da soli tre e, dopo il soggiorno a palazzo Venezia, è ospite di Nicola Giobbe (1705-1748) che gli ha fornito il primo asilo nella Capitale. Non a caso dedica a lui la sua prima opera: Prima parte di Architetture e Prospettive.

L’ospitalità sarebbe inspiegabile se non si prendesse in considerazione proprio la prassi delle “patenti”.

Giobbe è nominato nella lapide commemorativa nella Basilica dei SS. Apostoli a Roma, IN EXCITANDIS AEDIFICIIS OPERARVM PRAEFECTO.

La traduzione del termine Praefecto è quella di “capomastro muratore”, termine con cui viene designato nei documenti di cantiere sia lui che il padre Antonio. L’origine della famiglia rimanda al lago di Como da cui proviene il capofamiglia, documentato come morto nel 1733 .

L’epigrafe, posta ante mortem, redatta in italiano, si trova nell’ospizio vicino alla chiesa di San Clemente e ricorda il suo Priorato nella Compagnia del SS. Rosario e la sua prodigalità per la suddetta chiesa.

Due testimonianze che rivelano come le attività edili della famiglia avessero permesso di raggiungere, in breve tempo, non solo un’accertata solidità economica, ma anche di svolgere un ruolo culturale nell’Urbe dei primi decenni del XVIII secolo.

Nella dedicatoria in latino viene definito ARCHITECTVRAE STVDIOSO; questo rende comprensibile che la prima opera incisoria piranesiana del 1743 fosse dedicata proprio a Nicola Giobbe.

I primi tre anni romani del giovane Giovanni Battista furono sostenuti in vario modo dal rapporto instaurato tra l’architetto e il capomastro, rapporto che l’avanzamento degli studi su questo versante ha dimostrato si basasse sulla comune cultura di cantiere, quella che Piranesi aveva già assorbito nel suo apprendistato lagunare. Sembra però difficile ipotizzare che senza un’introduzione sia potuta nascere una frequentazione così “fraterna”, sorta solo da un casuale rapporto personale instaurato dall’architetto.

Sincronicamente si può tracciare, partendo da questi punti fermi, una complessa rete di rapporti che, senza ipotizzare fino a oggi indimostrabili adesioni, comunque rendano comprensibili il tragitto iniziale dell’avventura artistica di Piranesi tra Venezia e Roma.

Al di là della lapidaria definizione di capomastro muratore vi è, infatti, una serie di intrecci personali che caricano di un significato ulteriore il termine “muratore” così presente nella vita di Nicola Giobbe. Si può riscontrare con certezza il rapporto di quest’ultimo con Cesare Vignola, anch’esso massone ,e con il suo congiunto Pietro, segretario dell’Ambasciata veneta a Roma, dove risiedeva anche Piranesi, dopo la presa di possesso della sede diplomatica da parte di Francesco Venier, il 12 ottobre 1740.

Incomincia così a delinearsi, oltre che una rete di rapporti all’interno del mondo massonico afferente a Piranesi, anche una serie di luoghi sottesi a questo mondo.

Il 1743 è l’anno della sua prima opera grafica anche se in effetti lo storico Silla Zamboni, già nel 1964, segnalava cinque “vedutine” piranesiane in una Guida di Roma edita nel 1741 da Giovanni Lorenzo Barbiellini , dato che è significativo per testimoniare che, dal punto di vista tecnico, Piranesi giunse a Roma già preparato nell’arte incisoria da poter operare autonomamente.

Giovanni Battista sarebbe andato a Napoli accompagnato dallo scultore Antonio Corradini . Secondo lo storico Jacques-Guillaume Legrand, Piranesi è a Napoli per approfondire la propria cultura e tecnica pittorica, soprattutto per inseguire la lezione dei grandi pittori veneti e non con particolare attenzione a Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto (fig. 12), genovese di nascita, ma presente attivamente in alcune importanti città italiane come Roma e Napoli ma anche a Venezia.

Questa attrazione dell’incisore veneziano verso le opere pittoriche del Grechetto non è facilmente sostenibile se non inserendolo in quell’interesse verso il tardo barocco presente in Laguna.

Ma se si considera invece la produzione incisoria dell’artista genovese si può forse comprendere l’interesse e una certa influenza da parte delle incisioni di quest’ultimo sulle opere di fantasia, capricciose, del veneziano che nel 1745 si sta accingendo a lavorare alle famose Invenzioni Capric di Carceri.

Figura 7. Giovanni Benedetto Castiglione, Circe e i compagni di Ulisse
Fig. 12 - Giovanni Benedetto Castiglione, Circe e i compagni di Ulisse trasformati in bestie, 1650-51, acquaforte.

Questa tensione verso l’attività pittorica, anche se è riproposta nella narrazione del viaggio a Napoli del medico antiquario Giovanni Ludovico Bianconi (1717-1781), testimoniata dallo storico francese, non regge alla verifica dei documenti, poiché sembra il risultato di storie diverse raccontate e coagulatesi in un’unica tesi, quasi mitica, da parte dei due storici. Il racconto del viaggio in terra partenopea con Corradini, ante 1743, narra di un incontro con il direttore del Museo di Portici “Carlo Maderno” (in realtà Camillo Paterni) che gli avrebbe sconsigliato di perseguire la strada della pittura e di continuare ad approfondire le proprie capacità incisorie avendo preso visione di alcune tavole prodotte dal giovane veneziano. Ora, il direttore citato dalla testimonianza di Legrand prese possesso del museo dopo il 1748 e Corradini morì nel 1752. Difficile è stabilire quando sia avvenuto l’incontro ma, soprattutto, è impensabile che ancora nel 1748 Piranesi avesse dubbi e velleità diverse sul suo impegno professionale. L’unica certezza che proviene da queste testimonianze contraddittorie é che la capacità nel disegno doveva porsi ad un alto livello professionale sia sul versante del saper fare sia su quello dell’acculturamento.

Infatti, si può sostenere che si fosse affermato nell’arte incisoria avendo già editato la Prima parte di architetture e prospettive, nel 1743.

Non solo, sempre in quest’anno, inizia le Vedute di Roma su cui lavorerà senza soluzione di continuità sino al 1778. Sempre nel 1748, pubblica le incisioni delle Antichità romane de’ tempi della repubblica e de’ primi imperatori, la Nuova pianta di Roma, in collaborazione con Giovanni Battista Nolli (1701-1756), e inizia a diffondere le Piccole vedute di Roma e sono sue alcune incisioni che partecipano al volume Varie vedute di Roma antica e moderna.

Una massa di lavoro incisorio che è impensabile affiancare ad una indecisione sulle proprie scelte artistiche, tecniche e vitali, anche se il suo secondo ritorno in Laguna, dal luglio 1745 all’agosto del 1747, può aver portato alla possibile frequentazione di Giambattista Tiepolo e di Antonio Canal detto il Canaletto (1697-1768), senza nessuna possibile nostalgia verso l’arte pittorica ma con la curiosità di apprendere possibili applicazioni tecniche per la sua attività di incisore.

In effetti, l’incontro con la cultura artistica lagunare fu proficuo d’influenze ma non sicuramente tali da inficiare le sue scelte ormai chiaramente rivolte all’architettura e all’incisione come suo diretto portato. Comunque è probabile che Piranesi avesse di Tiepolo una conoscenza diretta essendo presenti nella Scuola dei Carmini sia il pittore, che eseguì le nove tele del soffitto tra il 1739 e il 1749, sia lo Scalfarotto come esecutore del tabernacolo, tra il 1724 e il 1725.

A rimarcare la rete d’intrecci e rapporti che caratterizzano i primi anni del soggiorno romano di Piranesi, una ragione più sostanziale di una ricerca d’ipotetici maestri del pennello, i suoi viaggi a Napoli sono conseguenti all’amicizia dello scultore veneto Antonio Corradini con il quale si recò in terra partenopea tra il 1750 e il 1752, anno della morte dello scultore.

Infatti, il principe Raimondo di Sangro (1710-1771) aveva coinvolto Corradini negli apparati scultorei per la Cappella di Sansevero, per segnare la sua adesione alla Massoneria.

Questi rapporti così caratterizzati dalla cultura illuminista e massonica che attraversano trasversalmente la società e le città, con cui Piranesi instaura uno stretto rapporto, passando da un capomastro muratore come Giobbe a un raffinato artista di fama europea come Corradini per giungere fino al Principe di Sangro, rivelano che l’architetto veneziano giunse a Roma con “patenti” che non potevano essere fornite se non da un equivalente substrato culturale e tecnico.

Infatti Piranesi lascia a Venezia una trama di esperienze sottese a un taglio trasversale dal punto di vista sociale e culturale del tutto simile a quello che frequenterà a Roma. Figlio di Laura, sorella di un architetto affermato e riconosciuto dalla Repubblica, Matteo Lucchesi, che fu tra l’altro Proto al Magistrato alle Acque, ebbe come padre Angelo Lucchesi (1683/84-1755), un tagliapietra ovviamente anch’esso legato, attraverso le parentele, a professionisti del settore, che può essere considerato come un piccolo imprenditore edile, molto simile, come status sociale, a quello di Angelo Piranesi, padre di Giovanni Battista. Si delinea così un taglio che attraversa la società veneziana, già evidente al momento del Battesimo, che vedrà come testimone, a fianco di un tagliapietra e di una sorella di un architetto affermato, un rappresentante di un ramo importante e dovizioso dell’aristocrazia veneziana, Giovanni Widmann quondam Ludovico (1695-1743), appartenente ad una famiglia di cui è accertato un membro, anch’egli di nome Giovanni (1748-1805), documentato come presente nella Loggia dei Liberi Muratori di Rio Marin nel 1785 quando anche a Venezia si ritenne opportuno organizzare gli interessati alle istanze massoniche in Logge. Appare così evidente un triangolo su cui si fonda la cultura e le esperienze di Giovanni Battista accumulate in giovane età, allorquando, a soli vent’anni nel 1740, deciderà di affrontare l’avventura romana. Il triangolo è delineato da tre figure: il già citato zio Matteo Lucchesi, l’architetto Giovanni Scalfarotto e il compagno di studi dello zio Tommaso Temanza.

Le ampie ricerche d’archivio degli ultimi anni hanno permesso di entrare maggiormente nel merito della figura dello zio Matteo Lucchesi. Un’azione legale intentata all’impresa della famiglia carnica Schiavi, che aveva vinto nel 1768 l’appalto della costruzione del palazzo del Monte di Pietà di San Daniele Friuli, ha permesso di mettere in evidenza la capacità costruttiva e la scrupolosità nella direzione dei lavori da parte dell’architetto veneziano più attento alle prassi di cantiere che alla ricerca architettonica. Questa è, infatti, costretta dal Lucchesi in precise scelte formali, ricollegabili alla tradizione veneta soprattutto se valutata a partire dall’opera più impegnativa della sua avventura architettonica, la villa che gli venne commissiona dal conte Ottavio Polcenigo a Polcenigo (PN), tra gli 1750-1770, pertanto contemporanea alla chiesa piranesiana del Priorato. La villa venne risolta con un impaginato e un distributivo rigoroso quanto prevedibile.

La pietra utilizzata come unico materiale per risolvere il portico al piano terra della facciata del palazzo di San Daniele può ricordare le comuni asserzioni sul modo di costruire antico da parte del Temanza che le riferisce anche al Lucchesi. In effetti, si ha una soluzione di un portico a cinque arcate al piano terra sulla facciata principale e poi un ampio impaginato a marmorino bianco che prevale sull’allineamento delle finestre appena sottolineate da un timpano lapideo al primo piano e da un architrave al secondo. Un’architettura che s’inserisce “silenziosamente” nella tradizione costruttiva veneta e, ovviamente, non vi è la possibilità di trovare alcun riferimento né formale, né tecnico costruttivo con la poetica architettonica piranesiana.

Nel suo saggio Venezia e lo “stato di terra” Paolo Morachiello delinea una figura che le ricerche in atto illuminano diversamente.

Infatti per lo storico, nell’avventura professionale dell’architetto Matteo Lucchesi, il pensiero fu superiore alla pratica, considerando solo lo scarso curriculum progettuale, ripiegandosi sugli altrettanto scarsi prodotti intellettuali e non considerando soprattutto la continua attività di proto.

Quello che emerge, al contrario, è una mano progettuale più attenta alle tecniche costruttive e alla corretta esecuzione. Vi è forse un più lontano aggancio di carattere estetico con Giovanni Battista. È l’edificio a cui sembra rifarsi il Lucchesi per il suo progetto di San Daniele. E’ il Monte di Pietà di Udine che sul versante degli ornati può essere rimasto inciso nella retina di un giovane “apprendista stregone”.

Saranno queste conoscenze legate alla firmitas, la coscienza di uno scire per causas che giustificano e non rendono per nulla velleitaria la sicurezza con cui il ventitreenne Giovanni Battista nella sua prima opera grafica romana, nel 1743, vorrà stampare sfrontatamente quella che ritiene essere la sua fondata qualifica: architetto veneziano. Anche se il richiamo all’architettura può essere visto sotto la prospettiva di una dichiarazione e di una partecipazione filosofica e politica di chiara marca illuminista lagunare. Un segnale preciso non di appartenenza alla Massoneria ma ad una cultura generale “illuminata” che poneva nella matematica e nell’architettura una conditio sine qua non per l’appartenenza ad un Illuminismo che rimanda soprattutto alle istanze di Antonio Conti e Francesco Algarotti (1712-1764).

Più interessante è, forse, l’analisi della letteratura e il dibattito architettonico che si può reperire intorno alle figure di Lucchesi, Temanza e Scalfarotto. Questo triangolo, infatti, oltre a produrre e a partecipare, con opere e scritti, al confronto delle idee in ambito lagunare, traccia una serie di fili rossi che congiungono figure che sostengono tesi illuministe ma fra loro anche contraddittorie come Giovanni Poleni, Andrea Musalo, Carlo Lodoli (1690-1761), Andrea Memmo (1729-1793), Scipione Maffei e il già citato Francesco Algarotti . Per comprendere la dialettica delle posizioni di questi rappresentanti dell’Illuminismo veneto basta prendere in considerazione la contrapposizione tra le posizioni di Tommaso Temanza e Matteo Lucchesi e quelle del Maffei, il quale giunse a dare direttamente del “matto” al Lucchesi in una lettera scritta al Poleni nel 1730 insinuando anche che il libello scritto dal Lucchesi fosse stato fatto “per altra mano”.

Facciata chiesa di S. Moisè
Fig. 13 - Alessandro Tremignon, Facciata della chiesa di San Moisè, Venezia, 1668.

Ora, dalla lettura dei testi circa le tematiche affrontate attraverso lo scontro delle idee, compreso il Lucchesi che si cimenta in una risposta contestatrice al Maffei dal titolo Riflessioni sulla pretesa scoperta del sopraornato toscano espostaci dall'autore dell'opera degli anfiteatri e singolarmente del veronese, del 1730, si può cogliere come siano tematiche conosciute e assimilate da Piranesi che non lo attraggono dal punto di vista delle scelte formali ma con cui instaura un rapporto dialettico e a volte di forte opposizione. Fin dalle sue prime opere, emerge una diversa visione del rapporto tra architettura e ornato da quella sostenuta dallo zio e dal Temanza. Il giudizio sull’ornato e sul suo ruolo nell’ambito della progettazione architettonica, in via di elaborazione nel giovane Piranesi, è sicuramente lontano dal puro funzionalismo del Temanza. Anche nell’analisi dei rapporti tra architettura romana, greca ed etrusca, il giovane architetto si differenzia dalla scuola veneziana, soprattutto quella più propensa a recuperare istanze neopalladiane . Qui emerge, forse, un altro sapere con cui giunge a Roma l’architetto e, cioè, l’influenza che può avere avuto sulle conoscenze anche tecniche del giovane architetto veneziano, un’altra linea di ricerca alternativa presente a Venezia anche se non vincente sul piano della Storia. E’ il filo rosso tracciato dallo sperimentalismo decorativo tentato da un architetto come il padovano Alessandro Tremignon (1635? - 1711) che, pur non giocando un ruolo fondamentale nel teatro architettonico della Venezia del primo Settecento, lascia un segno di opposizione nel susseguirsi degli impaginati veneziani neopalladiani alla fine del Barocco. È nella facciata di S. Moisè del 1668 (fig. 13) che l’architetto soddisfa, con una soluzione fortemente decorativa, la volontà estetica dei committenti, la famiglia patrizia Fini, che finanzia coscientemente tale trionfo lapideo. Questo potrebbe sembrare un unicum poiché le altre opere del Tremignon non mandano gli stessi forti segnali. Una serie di esperienze, attuate e non, rimaste a margine dell’architettura vincente nel loro insieme, mostrano la possibilità di un’altra storia dell’architettura e decorazione veneziana a partire dalla lezione di Baldassarre Longhena (1596/7-1682).

Se ci si ripiega sui segnali mandati dalle molte macchine scenografiche, dalle facciate e dagli altari che arredano le chiese veneziane tra i due secoli e se si collegano tra loro i tentativi di alcune architetture sia laiche sia religiose, attribuite ad alcuni epigoni del Longhena, s’intravede un’altra storia dell’architettura veneziana basata su un Barocco teso a risolvere le facciate e i volumi architettonici non con la movimentazione alla romana delle strutture costruttive, ma con un susseguirsi di elementi decorativi lapidei, distribuiti su impaginati geometricamente semplici e lineari.

I punti di riferimento di questo fermento possono essere individuati oltre che in Alessandro Tremignon, in Domenico Rossi (1657-1737), con la facciata della chiesa di S. Stae, disegnata nel 1709 dall’architetto Giuseppe Sardi (1624-1699), zio del Rossi, proveniente anche lui dalla regione dei Laghi, con la facciata della chiesa Santa Maria del Giglio, finanziata dalla nobile famiglia Barbaro ed eseguita nel 1680 e con la facciata della chiesa di Santa Maria di Nazareth eretta tra il 1672 e il 1680.

Un esempio lancinante, proprio perché non trionfante, di questa linea di ricerca rimasta marginale nell’architettura settecentesca veneziana è uno dei progetti, eseguiti alla fine del XVII secolo, per la facciata della chiesa di S. Vidal da parte dell’architetto Antonio Gaspari. È questo disegno, forse, la testimonianza grafica più vicina all’architettura realizzata da Piranesi, ricordando che la facciata attuale della chiesa del Priorato di Roma è orfana della parte superiore abbattuta dall’esercito francese durante una battaglia risorgimentale. All’interno di questi tracciati e incontri, riprende ancora maggior senso il richiamo precedentemente fatto all’altare di S. Marziale, opera del Gaspari come lontano riferimento all’altare del Priorato.

Per comprendere quanto questa linea sotterranea sia comunque presente nel processo cognitivo piranesiano bisogna tenere in conto che la figura del Tremignon era conosciuta nell’ambito dalla famiglia Piranesi tanto da comparire come testimone al fonte battesimale di Laura Lucchesi, madre di Giovanni Battista e sorella di Matteo Lucchesi. Non solo, ampliando lo spettro della ricerca si può cogliere una trama complessa di relazioni parentali e amichevoli in tutto l’ambiente professionale legato al cantiere e all’architettura. Domenico Rossi, originario di Morcote, nel Canton Ticino, fu allievo di Alessandro Tremignon e di Baldassarre Longhena. Ebbe come madre Caterina, sorella dell’architetto Giuseppe Sardi, anch’esso di Morcote. Domenico Rossi sposa Angiola Cavalieri, da cui le figlie, Benedetta sposa il capomastro Sante Trognon e Caterina, sposa in prime nozze, nel 1711, Giovanni Scalfarotto che, rimasto vedovo nel 1719, sposa in seconde nozze Maria, figlia dell’architetto Andrea Tirali (1657-1737). Lo Scalfarotto ebbe come sorella Adriana, moglie di Antonio Temanza e madre dell’architetto Tommaso. Quest’ultimo fu amico fraterno di Matteo Lucchesi in quanto seguirono gli stessi studi a Padova sotto la guida del marchese Giovanni Poleni (1683-1761) . Il binomio Temanza-Lucchesi giustifica, come ipotesi, la precoce presenza di Giovanni Battista nel cantiere, diretto dallo Scalfarotto, della chiesa di S. Simeon Piccolo (1718-1738) in cui, tra l’altro, lascia nell’antisacrestia una prima traccia della propria attività il giovane Temanza. La trama dei legami di parentela è chiara in quanto documentata da matrimoni e testimonianze ma ad essa s’intreccia ancor più quella delle committenze e dei cantieri. Fra i committenti dello Scalfarotto vi era la nobile famiglia Widmann, che fece eseguire un ciclo stucchivo per il proprio palazzo veneziano dal bolognese Giuseppe Maria Mazza (1653-1741), di cui un rappresentante, Zuanne, fu testimone di battesimo nel 1720 proprio di Giovanni Battista Piranesi. Non solo, il padre Angelo, tagliapietra, fu chiamato a operare nel 1728 nel cantiere di Ca’ Corner della Regina diretto da Domenico Rossi, suocero dello Scalfarotto e che, come si vedrà, fu un importante cantiere di decorazioni nella seconda metà del XVIII secolo.

A questo punto si può affermare che il giovanissimo Piranesi s’inserì in questa trama che gli permise di acquisire conoscenze tecniche e teoriche presenti in tutto il parterre professionale di una capitale dell’architettura così importante, in quel frammento di secolo, come Venezia e che troverà riscontro in tutta l’opera grafica delle Carceri, vero trattato di tecnica costruttiva che collega il mondo etrusco-romano all’architettura a lui contemporanea.

Non solo, attraverso le conoscenze costruttive, apprese nel contesto delle attività edilizie veneziane, si può anche comprendere l’apprendimento di conoscenze più specifiche rispetto all’ornato in quanto in quegli stessi cantieri, attraversati da persone a lui quotidianamente vicine come quello già citato di Ca’ Corner della Regina, operavano decoratori che ornavano l’interno dei palazzi con testimonianze dell’arte plastica, cioè dello stucco forte. Con questa scelta tecnica Giovanni Battista, vent’anni dopo il suo arrivo a Roma, risolse tutti gli impaginati della sua unica committenza architettonica attuata: la chiesa di Santa Maria del Priorato di Malta e l’antistante piazzale.

Venezia si trova nell’ultimo decennio del XVII secolo all'incrocio di due percorsi che portano, per diverse ragioni, a una importante presenza di cantieri stucchivi. La prima strada è quella che porta a Venezia da Bologna e farà giungere uno dei più importanti artisti capaci di manipolare la mescola dello stucco forte, Giuseppe Maria Mazza (1653-1741). Questi, pur non fermandosi in Laguna, lasciò una delle testimonianze esemplari della poetica tardo-barocca espressa con l’arte plastica. Non a caso si tratta di palazzo Widmann a San Cancian, i cui legami con la famiglia Piranesi sono stati citati più volte. Se la strada che porta da Bologna a Venezia, all’ombra dell’Accademia Clementina, fu determinante per la ripresa di committenze veneziane su questo versante, la strada che porta dal Ticino a Venezia, già così ben frequentata da attori del teatro dell’architettura lagunare nel XVII secolo, si arricchisce di una numerosa colonia di stuccatori cosiddetti “dei laghi”. Nel giro di pochi anni la decorazione stucchiva che si era inaridita, nella sua ricca tradizione rinascimentale, dopo la peste del 1630, ma non esaurita, riprese ad essere uno dei fattori di cambiamento estetico di tutta la Capitale. Una coppia di stuccatori, Abbondio Stazio (1663-1757) e Carpoforo Mazzetti detto il Tencalla (1685-1743), s’imporranno all’interno della committenza aristocratica veneziana ma l’avanzamento degli studi attuali ha messo in evidenza come vi fu una vera esplosione di committenze, di apparati decorativi stucchivi, in quasi tutte le residenze aristocratiche veneziane, facendo emergere un altissimo numero di maestranze e personalità artistiche quasi tutte provenienti dall’area ticinese e che una lettura municipalistica aveva adombrato a favore della coppia suddetta. In questo trionfo si consuma un’evoluzione stilistica che corrisponde anche a un’evoluzione tecnica. È proprio la coppia già citata di stuccatori che testimonia con la propria progettualità e tecnica esecutiva il passaggio, nei primi decenni del XVIII secolo, dallo stile Barocco a quello Rococò di cui Venezia diventa un centro riconosciuto d’influenza internazionale.

Il documento a cui si fa riferimento è il progetto per il soffitto con decorazioni a stucco forte che incastrano dipinti su tela di Giambattista Tiepolo nella Scuola della Beata Vergine del Carmelo a Venezia. Il disegno datato in basso a sinistra 22 luglio 1731 è un vero “concorso” fra i due maestri che in un gioco di sdoppiamento presentano due diverse rifiniture di un’uguale partitura del soffitto. Nella parte destra vi è la soluzione proposta dallo Stazio a sinistra quella del Tencalla che risulterà idealmente la vincitrice e che con poche varianti sarà poi messa in atto e ancor oggi contemplabile. Quello che interessa qui non è tanto il vincitore quanto che la proposta dello Stazio è risolta con stilemi e tecniche ancora legate al tardo Barocco. Le linee sono tutte sinuose, le varie figure geometriche e il loro decoro s’incastrano una dentro l’altra, gli spessori sono ancora consistenti e producono valori plastici attraverso il gioco delle ombre e delle luci. Il progetto del Tencalla elimina quasi tutte le sinuosità delle cornici, gli stucchi si ribassano di spessore, appaiono le linee spezzate e le figure geometriche riconquistano una loro autonomia e non tendono più a incastrarsi l’una con l’altra. Appare così sulla scena veneziana, trionfante, il Rococò ma, negli anni dell’apprendistato piranesiano, nei cantieri dei palazzi e delle chiese si praticava ancora indifferentemente sia tutta la tecnica dello stucco forte Barocca sia la novità del modellato Rococò. Tutte conoscenze che sono presenti e praticate in Piranesi architetto della chiesa del Gran Priorato.

Vi è un’altra tangenza professionale: l’architetto entrò in contatto, e si arricchì anche di nozioni di scenografia, frequentando l’atelier dei Maestri Domenico e Giuseppe Valeriani, rispettivamente quadraturista e figurista. I fratelli Valeriani risultano iscritti nel Libro della Fraglia dei Pittori Veneziani rispettivamente: nella figura di Giuseppe Valeriani presente nel 1718 e in seguito dal 1726 al 1730, anche se in questo periodo risulta fuori Venezia. Domenico Valeriani, probabilmente nato nel 1691, risulta registrato nel 1720 e dal 1726 al 1746 .

Anche se la scenografia rimase per il veneziano una delle tante abilità coltivate ma non praticate professionalmente. I frutti dei suoi studi scenografici non giunsero mai nella cavea di un teatro ma si riversarono nelle grandi visioni delle sue architetture, evidenti nelle sue acqueforti, sub specie di Capricci di Carceri e trasformatesi successivamente, nella seconda edizione semplicemente in Carceri e non fu un cambio solo di titolo ma anche di “intenzioni” dell’artista come emerge dallo avanzamento degli studi e delle raffinate ricerche sulla Carceri piranesiane di Silvia Gavuzzo-Stewart e come è emerso anche dall’intervento di Fabrizio De Cesaris, della Sapienza Università di Roma e Maria Grazia D’Amelio dell'Università di Tor Vergata di Roma nel Convegno Internazionale Piranesi@300 del maggio 2021, dal titolo Giovan Battista Piranesi e l’Architettura pratica.

È importante seguire la cultura “in scenografia” del Piranesi, in quanto portatrice di intrecci tra questa e l’arte incisoria, intrecci che si possono cogliere nel rapporto tra gli Zucchi e i Valeriani. L’apprendistato nella bottega degli Zucchi è comunque al centro di una serie di interrelazioni a cui è legato l’allunato veneziano e l’avventura artistica romana. Gli Zucchi e i Valeriani si trovano intrecciati e la testimonianza della loro collaborazione è data da una serie di stampe di cui due, datate ante 1724, rappresentano l’interno del Duomo di Udine, una il Presbiterio e il Coro (fig. 11) e l’altra il Mausoleo di Lodovico I Manin, su progetto di Domenico Rossi. Nel Presbiterio e nel Coro operarono con apparati stucchivi anche lo Stazio e il Tencalla.

Poco dopo il 1721 Giambattista Tiepolo fornì all’incisore Andrea Zucchi un disegno della Statua della Verginità che verrà scolpita da Antonio Corradini per la chiesa di Santa Maria del Carmelo. La stampa verrà dedicata da Andrea al nobile Zaccaria Sagredo (1653-1729), figlio di Stefano e Vienna Foscarini. Zaccaria collezionò una delle più belle raccolte dell’artista Giovanni Benedetto Castiglione detto "il Grechetto". Francesco Algarotti cercò di acquistare la collezione del Sagredo per il re di Sassonia ma venne anticipato dal console Joseph Smith (1682- 1770) che acquistò sempre dall’Algarotti un consistente numero di disegni del Castiglione proveniente da altre collezioni. E’ da considerare che la famiglia Sagredo fu committente degli stucchi sempre della coppia Stazio e Tencalla nel palazzo di Santa Sofia.

Dalla testimonianza dell’Algarotti si può recepire che il Castiglione fu ammirato dal Tiepolo che possedeva un monotipo di questo artista e lo studio da parte del pittore veneziano delle opere del genovese risulta chiaro dai soggetti e dalla tecnica delle acqueforti di Giambattista.

Questo specifico aspetto di rapporto tra i due artisti, attraverso le acqueforti, fu messo in particolare rilievo per primo già da Francesco Algarotti. E questo spinge a giustificare il riportato interesse per il Grechetto da parte del Piranesi in quanto rientra nell’interesse del suo gruppo culturale di riferimento a Venezia, illuminato e artisticamente impegnato, e non in una curiosità controcorrente e solipsistica.

Giambattista Tiepolo peraltro fu impegnato dal 1743 come frescante della chiesa di Santa Maria di Nazareth, attribuita a Baldassarre Longhena, la cui facciata fu elevata da Giuseppe Sardi e l’interno fu arricchito anche con gli affreschi di Domenico e Giuseppe Valeriani.

Il caso vuole che proprio nella cappella di sotto agli affreschi dei Valeriani vi siano due grandi tele firmate da Nicolò Bambini (1651-1736). In una di queste, la Miracolosa Comunione di Santa Teresa di Gesù, della fine del XVII secolo, l'artista risolve con un escamotage che sembra tratto dalla tela firmata Pittoni-Valeriani (fig. 8), in cui l'attore principale è un raggio di luce che rimanda alle scoperte della luce di Isaac Newton.

Tornando alla famiglia Zucchi questa incrociò più volte, e su versanti diversi, sia la vita sia le opere di Piranesi, quando quest’ultimo fece in tempo, prima di partire per Roma e durante il suo apprendistato incisorio veneziano, a conoscere lo scenografo e incisore Andrea, che come già visto era stato in rapporto sia col Tiepolo che col Corradini.

Piranesi Ponte di Blackfriars
Fig. 14 - G. B. Piranesi, Veduta di parte del ponte di Blackfriars, Londra, dettaglio, 1764 ca., acquaforte.

Negli anni dell’apprendistato, 1735-1740, conobbe nella bottega di Andrea i tre figli, tutti incisori, Francesco Zucchi (1692-1764), Lorenzo Zucchi (1704-1779) e Carlo Zucchi (1682-1767). Sicuramente i rapporti con Francesco non furono interrotti dallo spostamento nell’Urbe. Il figlio di quest’ultimo, Antonio Zucchi, anch’egli a Roma, fu messo in contatto da Piranesi con l’architetto inglese Robert Adam. Nella Città Eterna era giunta, negli anni 1763-1765, la pittrice svizzera Angelika Kauffmann (1741-1807). Quest’ultima tra le sue amicizie rappresentative, intessute a Roma, tra cui Winckelmann, conobbe, attraverso Piranesi, Antonio Zucchi, che finì poi per sposare nel 1781. La coppia si spostò a Londra, permettendo così ad Antonio di collaborare con il già citato Robert Adam. All’architetto scozzese, nell’ Urbe tra il 1755 e il 1757, Piranesi dedicò nel 1762 il Campo Marzio dell’antica Roma ed incise due tavole con la decorazione degli interni della Syon House di Londra, inclusi nel 1778-79 nel secondo tomo di The works in architecture of Robert and James Adam. Per l’architetto Robert Mylne (1733-1811), confratello massone di Adam, incise nel 1764 la tavola con il ponte di Blackfriars in costruzione sul suo progetto a Londra (fig. 14).

L’attività didattica di Giovan Battista Piranesi trova applicazione con l'arrivo a Roma di due coppie di fratelli provenienti dalla Scozia.

Gli Adam, Robert (1728-1792) e John (1721-1792), e i Mylne, Robert (1733-1811) e William (1734-1790). Entrambe le coppie trascorsero un lungo periodo a Roma, giungendovi nel 1755, e instaurarono un rapporto diretto con l’architetto veneziano, referente del loro apprendimento durante la tappa romana del loro Grand Tour. Tutti i fratelli rimasero, poi, in contatto con Piranesi ma il sodalizio più vincolante fu con i due Robert. Il soggiorno nell’Urbe di Robert Mylne durò quattro anni, mentre quello di Robert Adam fu più breve, circa tre anni, dal 1755 al 1758.

Entrambi i Robert rappresentano le punte di eccellenza delle due famiglie tutte impegnate nelle costruzioni e, per tradizione, massoniche.

Robert Adam quando giunge a Roma ha un buon curriculum in quanto proveniente da una famiglia agiata. Nel 1743 all’Università di Edimburgo aveva frequentato i corsi di matematica dell’ottimo Colin Maclaurin (1698-1746). Purtroppo per una grave malattia lasciò l’Università e fece un apprendistato nello studio del padre William Adam (1689-1748) ricercato progettista di architetture neopalladiane. Alla morte del padre, il fratello John ereditò lo studio e chiamò a sé Robert. Insieme decisero di intraprendere il Gran Tour passando dalla Francia per giungere a Roma nel 1755.

Contemporaneamente i fratelli Mylne nel 1754 iniziavano un lungo viaggio, principalmente a piedi, partendo da Parigi dove William studiava. Per giungere a Roma l’anno successivo. Anche i Mylne discendevano da una famiglia con una lunga storia alle spalle legata al mondo delle costruzioni. Il nonno, Robert Mylne (1633-1710) fu l’ultimo Maestro massone (s’intende di casa) della Corona di Scozia. Carica tenuta anche da suo padre e da suo nonno John morto nel 1657. Anche il padre dell’ultimo Robert, William, fu un imprenditore ed ebbe otto figli e sei figlie, ragione per cui la sua situazione economica non era per nulla florida. Questo costituì subito un contrasto “mondano” tra i due Robert.

Anche dal punto di vista massonico erano su fronti diversi legati alla Corona di Scozia i Mylne, protestanti gli Adam. Appena giunti a Roma Robert Mylne si presenta Andrew Lumisden (1720-1801), segretario di Giacomo Francesco Edoardo Stuart (1688-1766), detto il Vecchio Pretendente che dopo la sconfitta si era rifugiato a Roma dove veniva chiamato Re d’Inghilterra.

Robert Mylne aveva un curriculum studi limitato e prima di giungere a Roma aveva seguito un apprendistato di sei anni presso un falegname e aveva imparato dal padre a tagliare la pietra. Pertanto mentre Adam, seguito da Piranesi frequentava il Collegio di Francia e tutta l’intellighènzia internazionale presente a Roma, il Mylne si dedicò, invece, al disegno, alla figura, ma soprattutto alla scoperta dei monumenti romani di carattere pubblico tra i quali gli acquedotti, instaurando una grande amicizia personale con Piranesi. Si possono individuare i due diversi rapporti instaurati dall’architetto veneziano. Robert Adam fu citato nelle sue opere incisorie ed ebbe un rapporto di “alleanza mondana” che continuò anche quando il suo studio di architettura ebbe un grande successo, tanto da creare lo stile Adam.

Con Robert Mylne il rapporto fu più intimo e complice ed ebbe un momento di eccezionale collaborazione, nel 1764, nella costruzione dl ponte a Londra detto dei Frati Neri, Blackfriars, in quanto vicino al Convento domenicano. Mylne partecipò al concorso per la costruzione del ponte nel 1760 a cui parteciparono gli architetti più importanti di Londra, tra cui il famoso John Smeaton (1724-1792) e George Dance the Elder (1695-1768). Il ponte è piranesiano ed ha delle soluzioni tecniche che derivano dal suo insegnamento. L’incisore volle testimoniare l’opera dell’allievo con una splendida tavola attuata con le indicazioni precise da lui richieste da Roma. L’incisione documenta l’incredibile abilità sottesa alla coppia Mylne-Piranesi, infatti mostra la tecnica di centinatura degli archi ellittici nonché la soluzione di sovrapporre ad ogni pilone una coppia di colonne che serviva come carico di punta e, contemporaneamente, come sostegno della trabeazione e della balaustra. Altre raffinatezze tecniche sono introdotte dalla coppia progettante, come i cunei rimovibili nel centraggio di sostegno agli archi durante la costruzione, facilitando successivamente la fase di smontaggio. Le fondamenta dei pilastri erano costituite da pali infissi di legno livellati con una sega subacquea e la base lapidea attuata utilizzando un cassone emettendo in atto un’area di lavoro galleggiante o in immersione dalle dimensioni di 26 metri per 33 metri e 8 metri di altezza. Sono conoscenze tecnico-costruttive da proto veneziano che lavorando conosce perfettamente le soluzioni necessarie per portare a termine l’opera. Ancora una volta emerge la grande cultura tecnico-costruttiva, il saper fare di Giovan Battista Piranesi.

Ci sono due episodi contemporanei che segnano la contraddittorietà delle tendenze estetiche nell’ambito della Capitale romana: sono due episodi significativi in quanto sono sottesi alla committenza dei due cardinali più potenti della Curia romana, entrambi destinati al Soglio pontificio ma che non riuscirono a raggiungere perché nello scontro nessuno riuscì ad imporsi sull’altro: il cardinal Flavio Chigi (1711-1771) e il cardinal Alessandro Albani (1692-1779).

Due politiche, due culture, due scelte tecniche su cui vi è l’ombra inquietante di Giovanni Battista Piranesi, o meglio le due sue diverse assenze.

Villa Chigi alla Salaria (fig. 15) fu eretta dal cardinal Flavio tra gli anni 1763 e 1776. L’intervento del Cardinale nella villa, che seguì personalmente i lavori, giorno per giorno, facendosi affiancare di volta in volta, in forma prevalentemente consultiva, dagli architetti Tommaso Bianchi (?-1766), Pietro Camporese il Vecchio (1726-1781) e Giovanni Stern (1734-1794) fu determinato da un programma teso a ricoprire tutte le pareti e i soffitti con affreschi da parte di vari pittori tra i quali prevalsero Paolo Anesi (1710-1779), Antonio Bicchierai (1688-1766), Paolo Monaldi (1697-1773) e Tommaso Righi (1727-1802) che opererà anche a villa Albani e alla chiesa del Priorato.

Villa Chigi alla Salaria
Fig. 15 - Villa Chigi alla Salaria, 1773-1776.

Furono utilizzati al suo interno tutti i materiali provenienti dall’esperienza decorativa barocca romana oltre l’affresco, lo stucco forte, lo stucco lucido, l’ottone, l’argento, legno e una profusione di superfici dorate sia sulla boiserie, sia sugli stucchi, sia sulle pareti. È un trionfo del trompe-l’œil, del continuo gioco dell’inganno visivo dove la rappresentazione può essere contemporaneamente fantastica o verista, attuando il gioco illusorio di portare l’immagine reale dell’esterno all’interno e viceversa.

Un esempio perfetto di “bella infedeltà” che è un’espressione usata felicemente da Silvia Gavuzzo-Stewart con cui la storica definisce la scelta estetica implicita nel Piranesi già a ventitré anni nella dedica della sua prima opera: Prima parte di Architetture e Prospettive del 1743 al protettore Nicola Giobbe.

Anche l’architettura di villa Chigi è risolta col gioco dell’apparire e dell’essere. Le simmetrie delle finestre e delle porte esterne non corrispondono a quelle interne. Flavio Chigi giunge alla raffinata eleganza col gioco fra interno ed esterno, tra vero e artistico, risolvendo l’arredo della stanza del torrino con rappresentazioni che raffiguravano il paesaggio visibile dalle finestre sul parco e sul giardino all’italiana, eseguite da pittori fiamminghi, amati dal Cardinale nelle tematiche retrò proprie del XVII secolo, ovvero quelle dei Bamboccianti. Non è un caso che tra gli affreschi di vedute fantastiche contornate da architetture in trompe-l’œil vi sia rappresentato un grande vaso che potrebbe essere stato ammirato da Giovanni Battista Piranesi. Si tratta dell’ultima avventura decorativa romana in cui volutamente ci si attarda non solo nel Rococò ma addirittura negli stilemi tardo-barocchi.

Il taglio sincronico ha comportato uno stretto confronto con la vicina villa Albani (fig. 16), costruita quasi contemporaneamente alla villa Chigi alla Salaria, voluta dal cardinale Alessandro e costruita tra il 1747 e il 1763, che si dà come officina dell’elaborazione di stilemi che sarebbero diventati fondanti nel neoclassicismo. Furono utilizzati gli stessi artisti della villa di Flavio Chigi. I due Cardinali sono tra loro in competizione per la scalata al soglio pontificio e sono alternativi nelle scelte artistiche e culturali, ma utilizzano le stesse maestranze e gli stessi artisti. A villa Albani la presenza di Piranesi non è particolarmente fruttuosa e fu palesemente contrastata da Johann Joachim Winckelmann e il suo entourage. Anche se vi è una letteratura che sostiene la possibilità di una presenza significativa nel programma decorativo della villa da parte dell’architetto veneziano. Certamente le fonti testimoniano l’ostilità dichiarata e documentata dell’architetto romano Carlo Marchionni (1702-1786) presente nel cantiere come progettista e direttore dei lavori. Inquietante in questo senso è il disegno che testimonia che Marchionni s’impegnò in un progetto alternativo a quello di Piranesi per l’altare di Santa Maria al Priorato .

G.B. Piranesi – Villa Albani
Fig. 16 - G. B. Piranesi, Veduta della Villa dell'Emo. Sig. Card. Alessandro Albani fuori di Porta Salaria, 1769 ca., acquaforte con interventi a bulino.

L’archeologo Carlo Gasparri scrive che fra la cerchia degli artisti intimi del Cardinale spicca “per la sua assenza il Piranesi” e, comunque, una matrice, incisa dal veneziano con la rappresentazione della residenza Albani testimonia che, per quanto contrastato, vi fu un rapporto. Questo fu sicuramente sostenuto dall’erudito Giovanni Gaetano Bottari (1689-1775) con cui il cardinale Alessandro aveva uno stretto rapporto personale ed affinità estetiche.

Il cardinale Alessandro Albani fu, tra l’altro, mecenate di Giovanni Battista Nolli (1701-1756), incisore romano presso il cui studio Piranesi lavorò nei primi anni del suo soggiorno a Roma. Nolli decise di rivedere l’impianto della sua Pianta di Roma del 1744 per potervi inserire l’area, precedentemente esclusa, di villa Albani in quegli anni in costruzione. È pertanto l’entourage artistico del Cardinale, caratterizzato dalla presenza dell’intellettuale Johann Winckelmann, che porta a un’ennesima sconfitta di Piranesi, dal punto di vista della committenza. Su questo versante, si devono ricordare anche le problematiche conosciute dall’architetto a Venezia e così si può comprendere quanto contraddittorie apparissero le posizioni teoriche e le scelte estetiche rispetto alle posizioni assunte dal Neoellenismo romano, ben più rigido e intellettualmente meno sofferto rispetto al dibattito lagunare.

Come Piranesi a Venezia si oppose, pur ammirando l’opera del Palladio, ad un, per lui, storicamente insufficiente neopalladianesimo lagunare, carico di istanze puriste, fino a liberarsene con l’andata a Roma, nello stesso modo, una volta nell’Urbe, si trovò a scontrarsi col moralismo sotteso al neoellenismo winckelmanniano. In Laguna comunque vi era la possibilità di esprimersi, di ricevere commissioni nella variegata e frammentaria scelta estetica e culturale dell’aristocrazia e della borghesia, come emerge dalle sperimentazioni di Tremignon e di Gaspari.

A Roma, al contrario, solo l’arrivo di un entourage papale di matrice veneziana permise all’architetto di porsi al tavolo non solo dell’incisore, ma anche del progettista.

Due importanti episodi architettonici e decorativi della Roma della seconda metà del XVIII secolo danno la misura, in un certo senso, del ruolo giocato dal Piranesi nell’Urbe come architetto. Là dove avrebbe potuto esserci, villa Chigi alla Salaria, dove la sua continuità col Barocco sarebbe stata assunta come valore positivo, fu assente. Là dove avrebbe voluto esserci, anche per la presenza di appoggi significativi, non riuscì ad imporre la sua Weltanschauung, non solo come decoratore ma, soprattutto, come architetto, cioè villa Albani.

La domanda cui si cerca di rispondere con la ricerca in atto é di quali sapienze tecniche era riuscito ad appropriarsi Piranesi rispetto alle due professioni che attraversano il suo percorso artistico, cioè l’architettura e la decorazione a stucco. La prima come desiderio che si concretizzerà solo nella chiesa del Gran Priorato e la seconda che si attua e si dispiega sia nella facciata sia nell’interno della suddetta chiesa e ancor più nel piazzale antistante l’ingresso della villa. Perché proprio queste? Perché queste appaiono come compiute nel loro iter al momento della partenza da Venezia e con una contraddittoria presenza nel percorso professionale dell’artista.

Infatti, la “patente” di architetto è in un certo senso riconosciuta fin dall’inizio del suo soggiorno romano ed è soprattutto proclamata da Piranesi stesso, non solo come architetto ma, come architetto veneziano (1743), cioè che fonda il suo sapere proprio nel suo apprendistato lagunare. Apprendistato che viene rivendicato anche di fronte a un’assenza totale di incarichi espletati fino alla commessa del Priorato di Malta nel 1764. Dall’altra parte la tecnica dello stucco forte e dei saperi a questa sottesi appare sì una sola volta ma come linguaggio onnicomprensivo che risolve non solo l’interno e l’esterno della chiesa di Santa Maria del Priorato ma anche tutta la Piazza antistante all’ingresso monumentale al complesso dell’Ordine di Malta sull’Aventino.

Dal punto di vista dell’architettura, l’arte incisoria era parte integrante delle conoscenze di un apprendista, in quanto questa tecnica serviva per pubblicizzare la potenzialità progettuale ed esecutiva di una “officina di architettura”. Pertanto si ha una serie d’incisori e/o architetti che si avvalgono dell’arte incisoria per far contemplare, nel teatro dell’architettura, nel mondo, i propri progetti e/o le proprie utopie. Ovviamente la tecnica grafica per far conoscere la propria abilità nell’impaginare una facciata richiedeva una mano capace di rappresentare un’architettura nella sua massima espressione di visibilità del progetto. Perciò linee semplici e chiare, ombre leggere che non oscurano l’architettura, ma ne evidenziano i valori tattili, le sporgenze e gli incavi. È ovviamente una tecnica attraverso la quale bisogna passare per giungere alle raffinatezze grafiche o pittoriche di un Canaletto o di un Tiepolo. Di questa tecnica Piranesi se ne appropria sicuramente a Venezia alla bottega di Carlo Zucchi, com’è evidente nell’architettura ottenuta con sole pure linee sottili nell’incisione del Maestro: Tempio Egiziano, tecnica che il giovane veneziano raffina ulteriormente dopo il ritorno a Venezia negli anni 1743-1744.

Per apprendere abbastanza seriamente l’arte incisoria, l’impegno professionale richiesto a bottega era all’incirca tre anni. Fu appresa pertanto, dal giovane Piranesi, presumibilmente tra il 1735 e il 1740. Ovviamente l’attitudine, la predisposizione dell’allievo poteva accelerare questo impegno e nel caso di Giovan Battista si può considerare che effettivamente vi fu un’assodata disponibilità e, che soprattutto ebbe la possibilità di frequentare quello che tra gli anni venti e quaranta del XVIII secolo si poteva considerare colui che deteneva il monopolio del mercato delle incisioni, Carlo Zucchi. È documentabile che al momento della partenza da Venezia, sul versante dell’incisione, Piranesi fosse già professionalmente maturo e potesse aggiungere a questa maturità gli altri due versanti della sua cultura professionali.

Vi è un’altra tangenza professionale in area lagunare interessante per illuminare ulteriormente il bagaglio di sapienze e di pratiche con cui partì per la Città Eterna il giovane veneziano. Piranesi entrò in contatto e si arricchì anche di nozioni di arte scenografica frequentando l’atelier dei già citati Maestri, Domenico e Giuseppe Valeriani. Questo apprendistato è testimoniato sia dal biografo Giovanni Lodovico Bianconi, sia da Jacques-Guillaume Legrand che, attraverso quest’ultimi, traccia una linea di continuità tra Piranesi e la scuola di Ferdinando Galli Bibbiena (1657-1743).

Bibbiena Carcere
Fig. 17 - G. Galli Bibbiena, Carcere, disegno a penna.
© Vienna, Albertina.
Piranesi Carcere Oscura
Fig. 18 - G. B. Piranesi, Carcere Oscura, da Prima parte di Architetture e Prospettive, 1743, acquaforte con ritocchi a bulino.

Silvia Gavuzzo-Stewart poggia su queste frequentazioni l’assunzione dei coni prospettici nelle tavole delle Carceri che sono ovviamente più complesse di quelle dove lo stesso Piranesi rappresenta facciate e cortine urbane inserite in piazze o vie. Per dimostrare questa ipotesi, la storica accosta due incisioni, un Carcere di Giuseppe Galli Bibbiena (1696-1757) (fig. 17) e Carcere oscura di Piranesi edito nel 1743 (fig. 18). Il taglio prospettico può indurre a qualche analogia fra le due stampe ma qui possiamo verificare quello che nessun analista ha messo in evidenza, anzi qualche critico ha preso posizioni decisamente contrarie. E cioè che è evidente dal punto di vista del sapere statico e costruttivo che l’opera del Bibbiena è una scenografia con gravi errori dal punto di vista della Scienza delle Costruzioni mentre la prospettiva del carcere oscura piranesiana è di una chiarezza geometrica e di una perfetta esecuzione statica che rivela la sua solida formazione all’interno della cultura di un proto.

Entrando nel merito nell’opera del Bibbiena, il doppio puntone ligneo a sostegno di un arco a tutto sesto è un grave errore statico. Infatti, non puntella la chiave di volta, ma spinge verso l’alto una parte laterale dell’arco inserendo ulteriori spinte orizzontali nell’equilibrio di quest’ultimo. I due contrafforti posti dal Bibbiena alla base dei pilastri che sorreggono un arco a tutto sesto non solo non servono a nulla ma, spingono orizzontalmente favorendo così la componente orizzontale dell’arco . Al contrario, nell’opera di Piranesi, la costruzione lapidea è perfettamente disegnata secondo le regole e anche l’altissima carrucola, che è una delle attrici in primo piano dell’impianto dell’incisione è posizionata perfettamente nella chiave di volta in modo che entrando in funzione nel sollevamento pesi aiuta la chiave di volta accentuando le spinte verticali e pertanto rinforzando la tenuta dell’arco. Stranamente non è stata messa in evidenza la tecnica costruttiva che sottende alle Carceri ed è invece prevalsa l’interpretazione poetica dello sforzo progettuale piranesiano, relegandolo nella utopia architettonica. Secondo lo storico d’arte Valerio Mariani (1899-1982) “le Carceri del Piranesi stanno e restano come un sogno che non possiamo pensare tradotto in realtà nemmeno a teatro” e per la storica dell’arte Mercedes Viale Ferrero (1924-2019) le Carceri non sono nemmeno scenografie in quanto, nel senso stretto del termine, sono incuranti di ogni pratica possibilità di realizzazione non solo in concreto ma anche come semplice allestimento scenico.

Questa incapacità di leggere “il saper fare” di Piranesi dal punto di vista costruttivo ha portato a letture totalmente devianti della sua più significativa architettura costruita, la chiesa del Gran Priorato di Malta a Roma, che rimane comunque un segno forte del secolo pur, o forse proprio per questo, nella sua unicità. Fu l’unico progetto attuato dall’architetto veneziano in quanto le altre commesse, prevalentemente legate alla famiglia Rezzonico, furono rese per qualche ragione vane.

Si è asserito che l’intervento al Priorato consistesse solo in una sovrapposizione delle decorazioni a stucco forte sulle antiche strutture già esistenti. Il ritrovamento e lo studio del “Libro dei conti” conservato presso la Columbia University di New York ha messo in evidenza che l’intervento piranesiano volutamente coinvolse non solo le superfici decorate ma pesantemente l’impianto statico dell’edificio e anche in parte la sua morfologia. Dal Libro dei conti si percepisce perfettamente la sicurezza con cui l’architetto ha diretto prima di tutto il rinforzo dei muri di contenimento della piazzetta antistante e quello sul fianco sinistro della chiesa.

Il rinforzo di tutti i muri dell’edificio è stato attuato con la messa in opera di chiavi di catene metalliche sui quattro lati in modo da cerchiare tutto il perimetro e interrompere il processo di apertura dei muri portanti verso l’esterno.

Il rifacimento del tetto fu attuato con l’aggiunta di una piccola cupola posta nella navata centrale, poco prima dell’altare. Questo inserimento è un segno forte dal punto di vista progettuale, in quanto è sempre stato interpretato come un elemento che avrebbe dovuto portare all’illuminazione dell’altare e controbilanciare la forte immissione di luce proveniente dalle finestre nell’abside. Quest’ultime illuminano fortemente il retro dell’altare cosicché entrando nella Chiesa, che pur ben illuminata, lascia comunque in ombra la sua facciata.

Infatti, la piccola cupola è all’interno della capriata e pertanto può prendere luce solo da una piccola finestra che si apre sopra la copertura dell’abside. Poiché non risulta dalla documentazione storica esistente nessuna testimonianza relativa alla presenza di un lucernaio è da ritenere che fin dall’origine la soluzione volumetrica è quella tutt’oggi esistente, che pertanto non doveva avere alcuna funzione relativa all’illuminazione. L’unica possibile funzione di un volume in quella posizione non può essere che quella relativa alla musica, creando un’ulteriore raffinatezza tecnico-costruttiva che caratterizza l’opera di Piranesi come architetto tracciando un collegamento e che lo collega al dibattito sul rapporto tra architettura e musica, presente a Venezia ma anche in altre sedi dove tale arte si stava imponendo a livello internazionale. Dopo aver rinforzato i muri e risolto tutti i problemi statici dell’edificio inizia la campagna dei decori. Da parte dell’architetto veneziano vi è una scelta univoca, ovvero quella di risolvere tutto l’insieme architettonico con un intervento decorativo usando un unico materiale e un’unica tecnica quella dello stucco che nel Libro dei conti viene chiamato “stucco di marmo”.

Il termine più corretto e più utilizzato nei cantieri dell’epoca è stucco forte. Si chiama così per distinguerlo dalla mescola a base di gesso che è molto più debole e soprattutto idrovora, dunque facilmente aggredibile dagli agenti atmosferici principalmente all’esterno. L’organizzazione del cantiere che usa lo stucco forte è completamente diversa da quello dello stucco di gesso. Vi è anche una qualità specifica di una mescola a base di calce, rispetto a quella di gesso: permette di lavorare, soprattutto sui bassi spessori, ottenendo spigolature più geometriche, più “taglienti”, mentre la mescola di gesso tende ad arrotondarsi sugli spigoli soprattutto nel caso si utilizzino delle modine metalliche.

 Stratigrafia degli intonaci
Fig. 19 - Stratigrafia degli intonaci della mescola con l’uso della pozzolana.
Stuccoforte plasmato in opera
Fig. 20 - Stucco forte plasmato in opera.

Che cosa caratterizza pertanto la mescola di stucco forte voluta da Piranesi che fa della chiesa del Priorato e della Piazza dei Cavalieri un unicum assoluto? È una mescola che presuppone una tecnica complessa. La messa in opera prevede, a Venezia, più strati e tre materiali distribuiti diversamente nel sovrapporsi delle diverse superfici. Si tratta della presenza di due inerti e di un collante. Quest’ultimo è la calce spenta caratterizzata da un biancore assoluto. Il primo inerte che viene utilizzato a Roma per ottenere un fondo a uno o più strati è la pozzolana (fig. 19), che viene mescolata alla calce. Questo particolare materiale, di origine vulcanica, presente in alcune aree d’Italia ha delle caratteristiche particolari che rendono resistente il fondo, in quanto svolge anche il ruolo di inerte e di collante. Tale scelta decorativa permise all’architetto veneziano di utilizzare lo stucco forte anche all’esterno e solo in tre strati. Il secondo inerte è la polvere di marmo che, nel caso di Piranesi, viene utilizzata con una superficie particolarmente sottile, di qualche millimetro, sempre mescolato a calce e steso come ultimo strato. Questa mescola finale di calce e polvere di marmo è quella che dà il biancore alla facciata e a tutto l’interno della chiesa, che giustifica il termine di cantiere, “stucco di marmo” (fig. 20). All’esterno, in area romana, la superficie non viene rasata fino alla lucidatura, come in area veneta, ma viene tenuta sotto tono e protetta con una passata di tempera, con varie tecniche che possono prevedere una passata col pennello oppure con panno o spugna o anche panno e pennello contemporaneamente. Quest’ultimo modus operandi è stato riscontrato sulla facciata di villa Chigi alla Salaria. All’interno si trovano oggi alcuni fondi della stuccatura architettonica che presentano una passata a tempera di colore chiaro virato verso il giallo, variante inserita successivamente durante i vari restauri che si sono susseguiti. La decorazione a stucco interna ed esterna prevede di attuare sia gli elementi architettonici, che sono risolti con grandi spatole e modine per tirare la mescola sulle modanature, sia le decorazioni plastiche fitomorfe, antropomorfe o zoomorfe. La stesura dello stucco forte sugli elementi strutturali o sulle superfici delle cortine murarie veniva eseguita tendenzialmente dalla manodopera di cantiere soprattutto quando, come in questo caso, le superfici erano ampie. Le decorazioni plastiche venivano invece eseguite dal cantiere degli stuccatori con un Maestro e con un certo grado di autonomia. Il Maestro, in questo caso, è Tommaso Righi, artista affermato, abile anche nella scultura lapidea e con un curriculum consistente.

La chiamata del Righi non è senza ragione poiché aveva partecipato alla decorazione di villa Albani, per cui era conosciuto da tutto il gruppo che ruotava intorno al Cardinale committente della villa. Non solo, nel 1748, il Righi plasmò in terracotta la Nascita della Vergine per la Cappella del Voto nel Duomo di Siena voluta dalla famiglia Chigi. Il suo modello in terracotta fu poi fatto eseguire in stucco da Carlo Marchionni che chiamerà poi lo stuccatore romano a lavorare a villa Albani. I primi anni dell’attività dello stuccatore sono all’ombra dell’esperienza presso lo scultore fiorentino Filippo della Valle (1698-1768), attivo a Roma dal 1725 al 1768. Da lui apprende la lezione dei francesi d’inizio secolo, Pierre Le Gros (1666-1719) e Pierre-Étienne Monnot (1657-1733), lezione intrisa ancora di forti stilemi barocchi. Questa gli permise l’appropriazione di una tecnica complessa sia dal punto di vista del modellato, sia per quanto riguarda la tecnica costruttiva che gli permise di attuare grandi anime interne al manufatto plastico. Da ciò discende una persistenza sulla ricerca plastica di tradizione barocca che lo influenzerà per tutta la vita.

Infatti, Tommaso Righi terminerà in un isolamento culturale i suoi anni poiché, dopo il 1770, l’avanzare delle istanze neoclassiche, alle quali non parteciperà mai completamente, lo porteranno a una perdita quasi completa di commesse per terminare la sua avventura artistica lontano da Roma, a Vilnius in Lituania e poi in Polonia. Il rapporto con Piranesi trova punte di tangenza anche sotto l’aspetto accademico in quanto, attraversando come allievo l’Accademia di San Luca, ne diventerà, successivamente, accademico nel 1760. Altro punto d’incrocio professionale con l’architetto veneziano è la collaborazione dello stuccatore romano con il pittore Antonio Bicchierai, anch’egli presente nel cantiere di villa Albani e di cui sposerà la figlia Ortensia. Tommaso Righi cercò comunque di rispondere in qualche modo alla richiesta nascente di un decoro classico di tipo antiquariale, soprattutto quando era vincolato a un’altrui direzione lavori come quando lavorò, tra il 1764 e il 1766, per Piranesi a Santa Maria dl Priorato. In effetti, lo stuccatore si adattò perfettamente a quella scelta dicotomica perseguita dall’architetto veneziano di mettere in atto una simbiosi delle singole arti tendendo ad una trasgressione che, pur utilizzando parole del linguaggio classico, in effetti ne erano una dissacrante trasgressione, soprattutto rispetto al neoclassicismo filo-ellenico di Winckelmann. Il rapporto Righi-Piranesi, al di là del risultato decorativo del Priorato, fu volutamente contraddittorio; infatti l’architetto nel 1772, dopo la decorazione della chiesa sull’Aventino, contestò con una lettera inviata a Anton Raphael Mengs (1728-1779) i prototipi presentati dal Righi all’Accademia di San Luca per il monumento funebre dello scultore Carlo Pio Balestra. La lettera non ebbe nessun seguito.

Secondo il Libro dei Conti della Fabbrica, firmato dal capomastro Giuseppe Pelosini e sottoscritto da Piranesi il 10 aprile 1767, Tommaso Righi eseguì due Trofei con la figura della Fama, oggi distrutti, nella cuspide della facciata della chiesa, Otto medaglioni in stucco con episodi della vita di San Giovanni Battista nella volta sopra l’altare, i Busti degli Apostoli nei medaglioni sotto le finestre, circondati da fronde di alloro sormontati da festoni e il Gruppo con San Basilio in Gloria che s’ innalza sull’altare maggiore, progettato accuratamente dall’architetto veneziano come dimostrano i disegni della Pierpont Morgan Library di New York e della Kunstbibliothek di Berlino.

Il cantiere dello stucco fu controllato in maniera particolare da Giovanni Battista Piranesi, soprattutto per alcune scelte significative. Gli apparati plastici, posizionati di fronte alle finestre alte sulla navata, sono finiti anche nelle parti che non sono visibili al visitatore. C’è una volontà di controllo della forma e di perfezione esecutiva. Al contrario, la parte retrostante dell’altare è, invece, volutamente lasciata senza ornamento, cioè mostra la sua rigida composizione geometrica. Il fronte dell’altare è risolto ornando riccamente i volumi generatori, con le figure a sbalzo degli angeli e del Santo, si dà con una raffinata soluzione di stilemi barocchi, non solo estetici ma anche strutturali, in quanto, per sostenere l’insieme è necessario approntare una struttura interna complessa con l’utilizzo di materiali diversi che vanno dal legno agli inserti metallici, al catrame, materiali organici leggeri, juta, etc… Tecniche e saperi che diverranno velocemente desueti per l’uso di bassi spessori già in atto nel Rococò ma che trovano la massima esasperazione nel Neoclassico che tende a non utilizzare sporgenze ed aggetti. L’aver scelto lo stucco come unico materiale e unica tecnica per risolvere tutti gli impaginati, sottende una conoscenza sicura, capace di dirigere un cantiere così speciale e unico nella Roma della seconda metà del XVIII secolo.

Questa persistenza delle forme che sottendono la τέχνη piranesiana tracciano un filo di continuità che oggi, all’interno di questa ricerca, può essere considerata una corrente non vincente, sviluppatasi a Venezia nella prima metà del XVIII secolo. Questa è caratterizzata da un latente antipalladianesimo, da un confrontarsi con le esperienze barocche romane rilette in “lingua veneziana”, all’ombra della grande lezione di Baldassarre Longhena e, contemporaneamente, da una partecipazione, in questo senso contraddittoria, all’Illuminismo e alle istanze massoniche. Il rappresentante più significativo di questa ideale corrente è l’architetto Antonio Gaspari che convive, come è stato messo in evidenza dalla ricerca, con tutta la trama di rapporti, amicizie e matrimoni entro cui ruota, a Venezia, anche l’entourage del giovanissimo Piranesi. Come il contenzioso del 1692 per i lavori di fondazione della Cappella dell’altare di S. Domenico nella chiesa dei SS.

Giovanni e Paolo a Venezia. Nel 7 maggio 1692 compaiono come periti Antonio Gaspari e Alessandro Tremignon. Quest’ultimo è il perito di parte dei fratelli Giuseppe e Giovan Battista Lucchesi, tagliapietra. Tutte figure professionali che compaiono nelle genealogie sottese alle diverse famiglie legate a Piranesi. Il loro rapporto, in questo caso, è strano e ambiguo in quanto il Gaspari è perito di sé stesso e del suo operato, mentre il Tremignon dovrebbe difendere gli interessi di parte dei tagliapietra Lucchesi. Ma chiaramente il rapporto tra gli architetti porta a un compromesso che sembra in prima istanza risolvente. In effetti, la perizia concordata fra loro non viene accettata e viene rifatta dando l’incarico a due architetti, probabilmente meno compromessi fra loro. Nell’impresa della Cappella nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo non a caso fu successivamente coinvolto Giovanni Scalfarotto e pertanto tutte le problematiche relative al fallimento statico oltre che estetico dell’altare del Gaspari entrarono a far parte del portato storico di Giovanni Battista Piranesi. Altrettanto si può affermare dell’avventura, trasformatasi in evidente sconfitta, del progetto per il monumento ai dogi Valier sempre ai SS. Giovanni e Paolo. Il Gaspari partecipò come inizialmente avvantaggiato dal rapporto con i committenti, presentando vari progetti per essere poi scalzato dal Tirali, la cui ombra aleggiò, non a caso, come possibile sostituto dell’atestino anche nel progetto della Cappella di S. Domenico. Queste sconfitte furono comunque frutto di dibattiti, di disegni e progetti provenienti da diverse mani e facenti parte di scontri a cui parteciparono tutte le figure significative dell’apprendistato del giovane Piranesi. Sembra anche significativa una analogia emergente da un disegno del Gaspari che potrebbe essere stato fissato nella giovane memoria piranesiana. Nel secondo progetto per il monumento Valier compare delineata con una precisa figura a sarcofago a trapezio rovescio, figura geometrica che sarà proposta da Piranesi come centro visivo dell’Altar della chiesa del Priorato. Un’analogia con tutti i limiti che l’attuale storiografia declina nei confronti dell’accostamento meccanico di figure d’immagini, può essere accostata con qualche giustificazione per dimostrare un’influenza della prima sulla seconda. Comunque al di là di questo meccanico accostamento la figura di Antonio Gaspari come punto di riferimento per il giovane lagunare, può essere considerata la figura che spiega il rifiuto delle scelte di un Piranesi “retrò” di essere condizionato dalla corrente neo-palladiana. Nel suo spingersi verso l’Urbe sembra essere attratto da due miraggi: il raccordarsi alle ricerche della matrice barocca della Città dei Papi, matrice sempre sconfitta nella Serenissima, e il desiderio di riscoprire la grandezza dell’architettura romana in termini costruttivi. Si tratta di un’unione difficile nella missione piranesiana che da il metro per comprendere le sue invenzioni incisorie e le sue sconfitte in architettura, ma anche del suo rimanere oggi punto significativo della storia dell’architettura italiana alla fine del XVIII secolo.


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